Marzia Ercolani: “Il verbo poetico della Merini è un corpo sacro”
Al Teatro della Visitazione di Roma, lo scorso 9 maggio ‘I colori maturano la notte. Confessioni di una diversa Alda Merini’ ha emesso il suo primo vagito. Un primo studio in cui Marzia Ercolani, affiancata in scena dal chitarrista Stefano Scarfone, impianta una narrazione cruda e potente in omaggio alla poetessa milanese, Alda Merini, ma soprattutto per augurare alla legge 180 un “buon compleanno”, poiché quest’anno compie 40 anni.
In occasione della rappresentazione abbiamo colto l’opportunità di rivolgere delle domande all’attrice–regista, per approfondire meglio la figura della Merini e il suo percorso professionale.
Dai molteplici interessi Marzia Ercolani giova delle sue esperienze lavorative: insegna teatro a detenuti e a pazienti psichiatrici, arricchendosi e crescendo ogni giorno di più.
Ci racconta infine del futuro della pièce, di cosa è per lei la poesia e delle conseguenze della Legge Basaglia, a suo avviso una legge imperfetta ma che ha liberato i matti confinati dentro delle mura strette, dove non potevamno fare nulla.
Marzia Ercolani, perché la scelta di Alda Merini?
“Alda è con me da molti anni. Credo di avere scoperto le sue poesie quando ero al liceo. Chi mi conosce sa quanto io ami la poesia, ne leggo molta, ne scrivo. La Merini è un’ ape regina, io un’apetta operaia. Alda ha un linguaggio poetico trasparente, profondo e radicale, potente, capace di toccare le sensibilità dei giovanissimi o di coloro che solitamente non frequentano la scrittura poetica. Motivo per il quale ho scelto la sua figura, il suo diario, le sue parole, per questo progetto. La scelta di Alda è stata conseguente alla mia urgenza di raccontare cosa accadeva all’interno dei manicomi prima della legge 180, legge che questo 13 maggio compie 40 anni. Volevo una forma semplice, narrativa, popolare, che avesse un valore informativo. Volevo un personaggio che sapesse parlar loro, un personaggio al quale potessero affezionarsi, popolare, dalla parola immediatamente toccante. Nasce così ‘I colori maturano la notte – confessioni di una diversa Alda Merini’. Ho ripreso in mano le pagine del suo decennio in manicomio ossia, ‘L’altra verità: diario di una diversa’ e ‘Terra Santa’, ho scelto alcuni aforismi, versi tratti da altre raccolte e ho elaborato ladrammaturgia”.
Perché raccontarla anche tramite l’uso del corpo?
“L’uso del corpo è una mia caratteristica da sempre, fa parte della mia formazione attoriale e del mio vissuto. L’attore ha nella sua etimologia la parola atto, è colui che agisce. E io ho scelto di raccontare Alda facendola mia. Inoltre lei stessa parla spesso del corpo nei suoi versi, in molte foto espone il suo corpo possente e non giovanissimo in topless davanti all’obiettivo, come fosse un manifesto. Il verbo poetico della Merini è un corpo sacro, un’ostia che io tento di incarnare come fosse una mia personalissima preghiera”.
Cosa si impara leggendo le poesie di Alda, da poter mettere in atto nella vita?
“Posso dire quello che insegnano a me, perché ciò che si impara è davvero un sentire unico e soggettivo. Alda mi infonde il coraggio della resilienza. Mi ricorda che il mio più profondo sentire non va nascosto, ma ascoltato. Mi spinge ad essere me stessa, al di là di ogni morale pubblica. Fa danzare in me il senso del sacro con il sapore del profano”.
Abbiamo assistito all’anteprima dello spettacolo “I colori maturano la notte”: il suo futuro?
“Il 9 maggio, al Teatro della Visitazione, ho portato in scena un nuovo allestimento di questo progetto. Il 12 maggio saremo al Santa Maria della Pietà, ex manicomio romano, nel padiglione dell’ex lavanderia, nell’ambito di due giornate dedicate ai 40 anni. Il futuro del progetto è in fase di costruzione, l’obiettivo è andare nei teatri a raccontare la storia della gestione delle malattie mentali e anche l’anima poetica resiliente di Alda Merini. E andare inoltre in alcuni luoghi di grande impatto storico e sociale, come gli ex manicomi, i carceri, gli ospedali capendo ovviamente come adattare l’allestimento scenico senza snaturare le scelte registiche. Credo molto nella valenza sociale di questo progetto e nell’impatto narrativo, poetico, onirico, musicale della messa in scena. Con me un musicista eccezionale, un talento immenso, un fuori classe, Stefano Scarfone, che firma tutte le musiche e le suona magistralmente live con la sua chitarra e con numerosi effetti. Atto nomade teatro è una compagnia indipendente che ho fondato nel 2011 e certamente il mio percorso di nomadismo artistico è faticoso come possono comprendere tutti i miei colleghi indipendenti, ovviamente ho sempre necessità di intercettare un maggiore sostegno produttivo e distributivo. Ma sto lavorando con grande impegno e con grande determinazione per costruire il tour, una bella squadra mi sostiene con grande impegno e grande fatica e alcuni bellissimi appuntamenti sono in via di definizione e vi faremo sapere a breve, troverete tutto sul sito di atto nomade e sulle mie pagine social”.
Secondo lei, le conseguenze della Legge Basaglia
“Una legge tanto contestata e certamente imperfetta. Molto c’è ancora da fare. Non possiamo lasciare sole le famiglie che devono confrontarsi tutti i giorni con i disturbi mentali di un loro caro. Ma la legge, a mio avviso, nonostante tutte le falle, ha segnato un grande passaggio culturale e politico. Purtroppo attuato con difficoltà e malamente. Certamente il paese non era pronto a rielaborare la gestione, non c’erano strutture adeguate. Ma non concordo con chi dice che è stata una legge sbagliata, che non andava fatta. Incompleta, imperfetta, certamente. Se avessimo aspettato di costruire strutture adeguate e di ripensare a case famiglia assistite o a possibilità del genere, strutture certamente necessarie, con la lentezza proverbiale e assassina della politica e della burocrazia italiana, i pazienti torturati nei manicomi di allora sarebbero ancor lì. Perché questo tutti devono sapere. Stiamo parlando della chiusura di quei manicomi lì. Di una rivoluzione contro e all’interno stesso della psichiatria italiana. Che a mio avviso dovrebbe continuare costantemente. All’epoca i degenti non erano curati, semmai venivano fatti impazzire del tutto subendo terapie da shock quali la malaria terapia (iniettavano la malaria per provocare febbri deliranti), l’insulino terapia (per provocare il diabete), e il tanto famigerato elettroshock, il cui ciclo prevedeva 15 sedute, effettuato quasi a tutti i degenti senza cognizione di causa. Stiamo parlando di pazienti che non potevano fare nessuna attività dentro al manicomio, non avevo un libro, una penna, un quaderno, una sigaretta, della musica, o altro. Uomini e donne separati. E spessissimo fascette di contenzione ai polsi e alle caviglie. Imbottiti di farmaci potentissimi. E se un medico osava dimettere, aveva la responsabilità penale delle eventuali azioni che il paziente dimesso avrebbe potuto compiere. Quindi raramente un medico dimetteva. Per dare risposte politiche e concrete alla gestione terapeutica e sociale delle malattie mentali è importante ripartire dalla storia stessa di questa gestione. Ho affiancato spesso questo spettacolo a piccoli momenti di confronto con il pubblico, ho avuto modo di invitare più volte per intervistarlo il premio Basaglia Adriano Pallotta, ex infermiere del Santa Maria della Pietà, che si ribellò al regolamento e che racconta da anni nelle scuole e nel suo libro “scene da un manicomio” cosa davvero accadeva dentro ai manicomi ai degenti. Un altro importante aspetto che non si può e non si deve dimenticare è che oltre tutto la maggior parte di coloro che venivano internati non erano affatto pazzi, semmai lo diventavano lì dentro, ma vittime di una terribile censura sociale, figure che non si allineavano alla morale pubblica, tutti sottoposti alle terapie. ( ragazze madri, donne adultere, omosessuali, bambini orfani che non trovavano spazio negli orfanotrofi). Basta ricordare che i lager nazisti furono pensati sull’esempio dei manicomi di allora”.
Cosa è per lei la poesia?
“La poesia è essenza, tempo primitivo, personalissimo, ancestrale. Il respiro del mondo nell’io. La vera natura divina, la comunione di sacro e profano. Che sia essa dolce o cruda”.
Infine, una curiosità: dalle sue esperienze professionali si evince che lei insegna teatro ai detenuti e a pazienti psichiatrici. In che modo queste persone migliorano il proprio stato esistenziale?
“Potrei parlare ore ma non credo riuscirei a dire tutto. Giocare davvero ha effetti su chiunque riesca ad affidarsi al gioco. Il gioco va di là delle diversità, le ingloba tutte. Ma per entrare nel merito della domanda, a volte, gli ostacoli, i limiti, le deformità mentali o fisiche, la detenzione, attraverso il gioco e l’espressione di sé, possono magicamente diventare ricchezze o quanto meno essere trasformate in creazione, consapevolezza, verità. Posso fermamente dire che oltre all’enorme valore terapeutico che il teatro e altri linguaggi espressivi hanno nei pazienti psichiatrici, nei disabili, sui detenuti in termini di libertà espressiva ritrovata, di gioco collettivo, di meritato protagonismo, di divertimento e spazio per raccontare e raccontarsi, per sentirsi unici, necessari, e al contempo uguali, oltre a questo enorme valore io ribalterei la domanda e invito a riflettere sull’effetto che l’arte della recitazione sui pazienti psichiatrici, sui disabili, sei detenuti provoca a noi ‘normodotati’, a noi ‘cittadini legali’, che abbiamo la possibilità di essere loro spettatori. Un enorme, grandissimo, specchio di purezza, verità, meraviglia, unicità, istinto, urgenza, che troppo spesso noi ‘sani e retti’ perdiamo nei meandri della ragionevolezza, del vivere quotidiano e della morale pubblica. D’altronde ‘Visto da vicino nessuno è normale’ diceva Basaglia. Personalmente imparo e continuo ricevere moltissimo da questi meravigliosi e complessi incontri. E sono davvero felice di poterne parlare. Un enorme ringraziamento a te cara Annalisa, per questa intervista e per l’attenzione che mi hai dato”.
Annalisa Civitelli