Gianluca Paolisso: “Il pericolo è accontentarsi di poco”
Abbiamo conosciuto Gianluca Paolisso in veste di attore e, in quella circostanza ci colpì molto. Inoltre, abbiamo continuato a seguirlo, constatando quanto il suo percorso formativo verti su una qualità dichiaratamente sfacciata.
Attualmente regista, ha fatto di ‘Genesi Poetiche’ una compagnia teatrale di tutto rispetto. Si avvale infatti di validi collaboratori, con i quali interagisce secondo un mondo di vedute e di idee a lui vicine.
Nei suoi spettacoli, meticolosi e puntuali, il chiaro riferimento ai classici è evidente ma soprattutto ad una forte spiritualità, intesa come ricerca nella vita.
Ci piace definirlo un ragazzo poliedrico, che per dare respiro a un’opera attinge da tutto e fa della sua scrittura perfezione, come le rappresentazioni che installa con linearità e garbo, donando loro un’accurata iconografia.
Gianluca Polisso,“Genesi Poetiche” è il nome della vostra compagnia teatrale. Genesi deriva da nascita–generare, mentre poetiche ispira ad un modo di scrivere introspettivo. Perché la scelta di questo nome?
“Spesso ho sentito dire che i giovani non avrebbero le carte in regola per fare Teatro. ‘Non studiano’, ‘Non sanno scrivere’ , ‘Si accontentano della precarietà’, ‘Si adoperano poco per cambiare le cose’. Sicuramente c’è del vero, ma credo che il focus sia altrove: queste sentenze tagliate con l’accetta sottintendono da parte della vecchia generazione una paura umana quanto miope, che poi ha molto a che fare con la morte. Il tramonto è vicino, ma fino all’ultimo respiro mi aggrappo ai privilegi ottenuti senza lasciare un centimetro al futuro! Credo che invece ‘la faccia del vecchio’, per utilizzare un’immagine dell’Antico Testamento, debba avere onori e oneri: da una parte deve essere rispettata, ascoltata e valorizzata nel suo grado esperienziale, dall’altra è tenuta a coltivare il concetto di eredità. Cosa lascerò ai miei figli? Ma soprattutto: cosa diverranno i miei insegnamenti? Fossili o terreno fertile per nuove, possibili trasformazioni? Ovviamente mai fare di tutta l’erba una fascio: ho conosciuto grandi Maestri del mondo teatrale e cinematografico con una fortissima tensione verso i giovani, pronti a trasmettere e condividere il bagaglio di anni senza alcuna remora, così come ho incontrato in questi anni decine di colleghi talentuosi: Attori, Registi, Drammaturghi, Costumisti, Tecnici. Ragazze e ragazzi che lottano ogni giorno, che sopravvivono e nonostante tutto non si privano di un sogno che dovrebbe essere loro consentito. E’ un processo uguale a se stesso dalla notte dei tempi: le vecchie generazioni affermano di essere migliori delle successive. Forse nemmeno la mia si salverà da tutto questo, ma spero se non altro di pensarla diversamente quando anche io avrò i capelli bianchi. Ecco perché il nome ‘Genesi Poetiche’ vuole essere anche una provocazione: non siamo una generazione perduta nella sua totalità. Questi individui di trent’anni sono ancora in grado di donare poesia al pubblico, e sapranno con mille passi incerti raccontare il loro presente. Datecene la possibilità!”
La nostra generazione è cresciuta con Mastroianni, Mariangela Melato, Tognazzi, Gasmann e tanti altri. Attualmente abbiamo un po’ di speranza nel sapere che potremmo avere grandi attori o attrici che possano non tanto equipararsi ai “geni” ma avvicinarsi a loro e ai livelli della loro recitazione?
“Può capitare che una o più generazioni non partoriscano i cosiddetti ‘geni’. È fisiologico, bisogna accettarne la possibilità. So però cosa accomunava Mastroianni, la Melato o Gassman: erano grandi artigiani, studiosi della natura umana, curiosi fin nel midollo, e proprio da queste caratteristiche noi giovani dovremmo partire o ri–partire, quando tutt’intorno vige la cultura del successo facile, della scorciatoia e della mediocrità. Credo sia questa la rivoluzione da combattere!”
Dunque: di questi tempi come si può scovare la qualità, ossia spettacoli validi per educare lo spettatore, per lo più abituato a cose leggere e commerciali?
“Rispondere a questa domanda presuppone delle competenze sociologiche che purtroppo non ho. Ciò che posso dire, da teatrante, è che l’intero comparto, critici, distributori, produzioni e addetti ai lavori, dovrebbero impegnarsi maggiormente nella scoperta delle nuove realtà teatrali indipendenti, quelle che possono vantare non i nomi blasonati o contatti politici, ma solo la bontà del lavoro. Scrivere, investire, farle circuitare e creare una fitta rete di interscambio. Un simile effetto domino coinvolgerebbe anche il pubblico, accrescendone la consapevolezza. Qualcosa si sta muovendo in tal senso, ma non basta. Troppi di noi sono ancora nell’ombra e questo, per tornare al concetto di eredità, nessuno dovrebbe permetterlo”.
Di conseguenza, quanto ripaga la qualità attualmente?
“Poco, non quanto dovrebbe: si fatica molto a scardinare certe dinamiche, ma soprattutto ciò che manca è il riconoscimento del nostro lavoro come valore sociale. All’estero non è cosi: il cinema e il teatro sono vere e proprie industrie, e i lavoratori dello spettacolo sono lavoratori, non artisti privi di ogni diritto! Ma tutto parte da noi, alla fine: nel mio gruppo di lavoro, per esempio, cerchiamo di coltivare la qualità e la condivisione tra i vari comparti. Crediamo sia il solo modo per crescere e raggiungere risultati. Da Autore e Regista, infatti, mi piace lavorare sul sogno, trasportare il pubblico in un viaggio lirico, trascendentale, e credo che in questo, così come in altre cose, ci sia una pregnanza necessaria. Il pericolo è accontentarsi di poco”.
E accontentarsi di poco, dunque, dove porta?
“Alla cultura del successo facile, della scorciatoia e della mediocrità, come detto prima. È necessario alzare l’asticella del pubblico, o quantomeno portarlo a capire che ci può essere una qualità e un contenuto che non necessariamente debbano essere ‘pesanti’. È possibile trattare temi importanti senza perdere, per questo, un’alta forma di intrattenimento e godibilità”.
Ha avuto occasione di viaggiare e di conoscere nuove forme teatrali?
“Ho avuto la fortuna di recitare molte volte all’estero. Ricordo con piacere Praga, una città nella quale la prima forma di intrattenimento è la Musica, e a seguire il Teatro, un ambiente nel quale la media d’età del pubblico è di vent’anni e la cultura dello spettacolo molto elevata. È stato formativo osservare come le altre compagnie operassero sulle tavole del palcoscenico, le molteplici influenze dei loro lavori, l’approccio e i rapporti. Cercavo di essere una spugna, di assorbire il più possibile dall’esperienza per poi rielaborare a mio modo. Ancora oggi lavoro così, e non penso che cambierò questo modus operandi in futuro”.
Secondo lei, in base alle sue esperienze, come si crea un nuovo linguaggio teatrale?
“Credo che nessuno possa essere così presuntuoso da affermare di poter creare un nuovo linguaggio. Lasciamo in pace chi lo ha fatto davvero, da Beckett a Eduardo fino ad arrivare a Pina Baush. Personalmente negli spettacoli della C.T. Genesi Poetiche opero una contaminazione di linguaggi, dalla recitazione su musica al teatro danza, alla costante ricerca di un’armonia estetica e contenutistica. Prendo a prestito e rielaboro, tutto qui. Forse alla fine avrò creato qualcosa di mio, ma di certo non parto con intenti utopici, sarebbe folle e senza senso”.
Qual è l’obiettivo del vostro lavoro?
“Raccontare il nostro tempo, far viaggiare il pubblico, crescere e condividere una stessa visione del teatro e del mondo. Nulla più di questo”.
Come sceglie i suoi attori?
“Gli Attori che lavorano con noi devono avere un’ottima propensione all’ascolto, al dialogo, all’elasticità, una solida base di teatro danza e un sentire allenato alla musica. Cerco sempre di trovare persone affini a livello umano, che abbiano una corrispondenza immediata al mio modo di sentire e vedere le cose. Amo scrivere con gli Attori durante le prove perché credo fermamente che la composizione a tavolino sia solo un embrione, un seme da far germogliare. Solo gli interpreti potranno dare il tocco finale, se di fine si può parlare in un’arte che cambia ogni dieci minuti”.
Quindi il teatro non lo fa solo chi recita ma tutto il cast, giusto?
“Credo tantissimo nel concetto di squadra: l’idea di formare un gruppo, volta per volta, con le persone giuste, fino ad arrivare alla composizione di una piccola famiglia. Anche queste sono fondamenta da ritrovare”.
Nei suoi spettacoli gioca sull’atemporalità, su un tempo non tempo. Un mondo destrutturato, in decomposizione. Cosa ci porteremo da qui al futuro, quale bagaglio culturale, secondo lei? Tutto questo può avere una correlazione con il sogno, l’immaginifico, con qualcosa che ci riporti a stare bene?
“Ho sempre pensato che il Teatro, così come altre forme espressive, ci permetta di entrare in contatto con qualcosa che già c’è: l’emotività è una peculiarità atavica. Come afferma il Maestro Giancarlo Sepe: ‘La bellezza è dentro di te, per questo la vedi’. Il bagaglio culturale a cui lei accennava a mio parere è proprio questo: riconnettersi all’emozione, ad un qualcosa che fugge le regole dell’ordinario, che ci consenta di compiere un viaggio in noi e fuori di noi. Quindi sì, tutto ha a che fare con il sogno, con l’immaginifico. Alle volte l’extra ordinario racconta molto di più del realismo sbattuto in faccia”.
I suoi spettacoli hanno un significato profondo rivolto alla religione: che valenza ha per lei la spiritualità?
“E’ una ricerca, come tante ne affrontiamo nella vita. Credo che da persona laica sia fondamentale per me conoscere le radici della mia cultura, indagare ciò che supera la logica, ma soprattutto la bellezza che ne deriva. Da questi intenti nasce la nostra ultima produzione, “Anticotestamento”, uno spettacolo che rievoca sulla scena il libro sacro più famoso al mondo, ma nello stesso tempo tratteggia un affresco dei nostri giorni, fatti di guerre, prevaricazione e sangue”.
Nei testi, invece, si nasconde un senso di paura e terrore dei nostri tempi: come superare le
paure contemporanee e riprendersi un po’ del tempo trascorso?
“Probabilmente si esorcizza la paura raccontandola. Credo però che nei miei lavori alberghi più un ‘senso di nostalgia’ per ciò che potrebbe essere e non è: oserei dire una lontananza dal cuore delle cose. Lo dico spesso agli Attori che lavorano con me: ‘Se durante le prove riuscirete ad esplorare la vostra nostalgia, allora tutto ciò che riguarda la costruzione dello spettacolo sarà più agevole’. Alla base della mia scrittura infatti c’è sempre la nostalgia”.
Secondo lei che cosa dovrebbe fare il teatro attualmente?
“Ripartire dalle piccole cose, riconoscersi nella primordialità, nella natura, e poi raccontare, come sempre”.
Annalisa Civitelli