Dall’attualità al palco arriva una vicenda che ne unisce tante altre, la quale contestualizza il dramma delle carceri italiane. I prigionieri, infatti, a volte muoiono per mano della sicurezza e qui la trasposizione della cronaca pare sia elaborata anche grazie al parallelismo con il sacro
Nonostante i preconcetti che ognuno di noi possa avere rispetto la religione, il monologo scritto e diretto da Carolina Balucani e interpretato da Matteo Svolacchia mette in relazione il rapporto reale e tangibile tra madre e figlio e quello Sacro, tra la Maria e Gesù.
Si entra in qualche modo in una sfera delicata, quella del “dolore-pietà” che provano tutte le madri nei confronti dei figli che, in questo caso, sono in cella, dove si vive un’esistenza tra le sbarre e la distanza di un vetro. La scarna regia si basa per di più sull’abilità gestuale dell’attore e, a tratti, si sviluppa tra silenzi e lentezza.
L’interprete all’inizio, sguardo fisso nel vuoto, stenta a parlare. Lui è la pecorella smarrita, che si è persa in un parco dove è stata poi arrestata per droga. Si dipana così la trama, la quale disegna l’alternanza tra dialoghi e monologhi su diversi piani narrativi che, per seguirli, richiedono molta attenzione.
Il protagonista ci narra delle preoccupazioni della propria genitrice la quale, vivacemente, lotta per un senso di giustizia equo e desidera riabbracciare il figlio, sebbene la “separazione sia artificiale” e il confine labile, dunque ingiusto. Ma si sa, ogni mamma non abbandona la sua prole neanche di fronte la sofferenza: “lei piange in silenzio, senza far rumore“.
Egli, inoltre, dialoga con lei e la guarda, la osserva da un punto di vista esterno, dall’al di là, mentre dispone le rose sulla sua tomba, chiedendosi il perché, sebbene gli sbagli commessi da vivo, lei possa volergli ancora bene.
Un qualsiasi rapporto madre-figlio attuale viene quindi comparato alla religiosità, espressa mediante la verticalità e l’orizzontalità del linguaggio divino: le braccia protese verso l’alto, testimoniano la discesa dal cielo della Madonna, mentre il movimento delle stesse verso il basso giustifica la posizione distesa del corpo morto del figlio.
Questo fa pensare, a ragion veduta, ad un appropriato accostamento con l’arte, che di fatto è un parallelismo peculiare, partendo da tutte le immagini “icona” che vanno dalla pittura alla scultura.
Svolacchia infatti possiede caratteristiche che ci guidano verso una lettura appropriata sia del testo, sia del sotto-testo, sebbene risulti più carismatico nei soliloqui dialettali, più sentiti e partecipati, che non quando instaura dei discorsi con la figura di fronte a lui.
Questo è il punto di forza de “La Regina Coeli” che tuttavia, oltre a dare forza alla lontana vicenda Cucchi, restituisce voce a tutte le morti ingiuste avvenute e che avvengono tuttora in prigione, soprattutto per contrastare la ricorrente omertà.
Annalisa Civitelli
Roma Fringe Festival 2019
21, 22 e 23 gennaio
La Regina Coeli
drammaturgia e regia Carolina Balucani
con Matteo Svolacchia