Giovanni Firpo: “Un piede dopo l’altro è metafora di costanza, lentezza e tenacia”
Da attore a regista teatrale, Giovanni Firpo ha deciso di rallentare i suoi ritmi di vita. Attualmente, infatti, lo troviamo immerso nell’‘esperienza cammino’. Di per sé sembra un sogno irraggiungibile ma al contrario è da considerare un atto di coraggio, che di fatto può modificare l’esistenza di ognuno di noi.
Allontanarsi dalla frenesia e pertanto andare lentamente, significa imparare a osservare e a considerare il tempo come un buon amico, a sfruttarlo nella maniera migliore.
Camminare assume quindi una valenza rilevante: l’arte di arrangiarsi si traduce in spirito di sacrificio, costanza, pazienza e iniziativa.
Girovagando per la Via Francigena, che parte dalla Gran Bretagna, attraversa la Francia per terminare in Italia, si scopre di più riguardo noi stessi. Ben lontano da considerare l’essere viandante una forma di turismo lento, chi affronta il lungo percorso a piedi si sente circondato dalla natura e dalla storia.
Giorno per giorno si apprende ad attingere ai pochi elementi a disposizione, a quelli che si incontrano per la via. Giovanni Firpo è capace a proiettarli nel suo mestiere con consapevolezza, facendo della solitudine un punto di organizzazione per la sua attuale professione.
Giovanni Firpo da attore a viaggiatore: differenze o punti di contatto?
“Ero un attore quando ho fatto il Cammino di Santiago nel 2009, e come attore mi sono lasciato guidare in una direzione, in particolare dall’onnipresente freccia gialla che indica Santiago de Compostela, mettendoci del mio ma senza deviare dal percorso. Nella Via Francigena, soprattutto fuori dall’Italia, il percorso si fa di giorno in giorno, si costruisce a seconda della ospitalità ridotta e dei punti di ristoro (scarsissimi). È un’esperienza più da regista e organizzatore, che è la mia professione attuale e richiede spirito di iniziativa, costanza, pazienza e tenacia, ma soprattutto saper resistere alla solitudine e alla compagnia di sé stesso, che è proprio il ruolo del regista perché, se qualcosa va male, non può incolpare qualcun altro per le sue responsabilità”.
L’allontanarsi dalla vita caotica, attualmente, quale valenza assume?
“Ha sicuramente un’aspetto di indipendenza e di gestione delle proprie forze. Certo non è che le mie giornate siano state solo bucoliche. Non avrei potuto stare fuori tanto tempo senza possibilità di lavorare, cosa che posso fare con il telefono gestendo il team della mia compagnia ‘Officine Montecristo’ e dell’organizzazione dell’ ‘Arezzo Crowd Festival’. In più gestire gli account social e il blog di ‘Un piede dopo l’altro’ ha scandito il mio tempo libero trasformandosi in una responsabilità di raccontare il percorso e quasi in un vero e proprio lavoro”.
Il suo percorso di cammino dall’Inghilterra alla Francia fino all’Italia, che inizia dalla via Francigena, lo si può considerare una forma di turismo lento?
“È improprio chiamarlo turismo lento, perché, anche se non si fa per motivi religiosi, in cammino si è ‘pellegrini’. Lo stato di pellegrino è particolare e liminale: il pellegrino percorre comunque una traccia di strada, o delle tappe, abbastanza definite, dove si trova un tipo di accoglienza destinata a lui (di solito più economici del normale). Ha un suo documento, una specie di passaporto che si chiama ‘Credenziale’. Io mi riferisco al ‘pellegrinaggio a piedi’, che è la mia esperienza, ed è diversa da quella, per esempio, di quelli che lo fanno in bicicletta. Quando si è a piedi si può vedere solo quello che è raggiungibile fisicamente e senza allontanarsi troppo, perché andare un kilometro nella direzione opposta da quella della meta, significa farne poi un altro per tornare sul percorso corretto. Alla lunga si cerca di economizzare le energie e di ottimizzare lo sforzo, pur cercando di non tralasciare la bellezza del paesaggio e del cammino”.
Perché un “piede dietro l’altro”?
“Perché è una metafora di costanza, lentezza e tenacia. I grandi traguardi si ottengono sommando piccoli sacrifici giorno dopo giorno, ora dopo ora, istante dopo istante. Nello sport, nell’arte, nella crescita personale e professionale. Questo è l’aspetto che le nuove generazioni stanno dimenticando, a favore del ‘tutto e subito’ e dell’’exploit eclatante’. In questi ultimi casi ci si affida alla fortuna, un piede dopo l’altro invece si costruisce qualcosa di solido”.
Cosa ha imparato viaggiando e cosa le è rimasto di questa ricca esperienza?
“Imparo sempre ad essere accolto, ad aprirmi, a chiedere quando ho bisogno. Chi vive queste tre cose sulla sua pelle, diventa più gentile con il prossimo e non può che cercare di aiutarlo perché conosce la sua sofferenza. È una palestra di indipendenza e di tolleranza. Dovrebbero viaggiare tutti e più spesso, soprattutto i giovani”.
Dopo questa decisione importante e di certo drastica come sarà reintegrarsi all’interno di una contemporaneità rapida, lontana da un’idea di vita intensa e lontana dallo stress?
“Avrò più energia e più attenzione per i dettagli, perché solo andando lentamente le immagini e i pensieri, i volti, le parole, le emozioni e i sentimenti rimangono nitidi e a fuoco”.
Avete mai provato a leggere un cartello mentre siete seduti su un treno in corsa?
“A volte basta scendere e rallentare per capire bene cosa c’è scritto, e la prossima volta che ci passerai davanti a tutta velocità, saprai chiaramente cosa ‘significa’”.
Annalisa Civitelli