Giuseppe Franza:
“Il calcio è un fatto culturale, il pallone è ispirazione”
Abbiamo incontrato l’autore di origine napoletana e romano di adozione. Al suo primo romanzo, Franza racconta il mondo del calcio di terza categoria, quello di periferia e che attira i ragazzi ai margini i quali, con questa attività, trovano la loro ragione di vita: un’opportunità.
Giuseppe Franza è capace di sviscerare la vicenda di ‘Cagliosa’ anche attraverso l’uso del dialetto napoletano. Ben contestualizzato nella narrazione, quest’ultimo, in modo preciso riesce a catturare l’interesse del lettore con lo slang che per le strade della città partenopea è usuale.
Franza sviluppa il suo amore per la scrittura che predilige all’arte della parola, mentre dell’attività calcistica lo attrae il potere che esercita sulle persone e, allo stesso tempo, lo affascina il calcio–mercato e alcuni momenti propri del gioco stesso.
Editor, dalla scrittura fervida e fluida, ci racconta del suo romanzo, di cosa pensa dell’editoria nostrana, della sua idea di poesia e della trasposizione cinematografica delle opere letterarie. Una persona eclettica e curiosa, insomma, che troverà di certo spazio e voce nel vasto panorama letterario italiano.
Giuseppe Franza, come è nato il suo amore per la scrittura?
“Non so se si tratta di amore. Ci sono dei momenti in cui la scrittura mi è indifferente o addirittura odiosa. La maggior parte delle volte mi provoca sentimenti di terrore. Se ci penso su, se rifletto con serietà su ciò che vuol dire scrivere e poi sul fatto che ho voluto firmare un romanzo, mi viene voglia di scusarmi e vergognarmi per un atto così insensato. Al di là di quest’aspetto, ho quasi sempre preferito la scrittura alla comunicazione orale, e ne ho fatto il mio lavoro, pur scegliendo di evitare per molto tempo l’espressione diretta. Mi sono perciò addentrato nel terribile universo del lavoro redazionale e mi sono scelto una maschera da editor”.
Qual è stato il suo percorso formativo?
“Sono cresciuto in periferia, dalle parti di Napoli, e mi sono laureato in filosofia. Ho frequentato con scarso impegno e scarsissimo successo il mondo della musica underground, suonando la batteria per una decina d’anni. Ho lavorato come correttore di bozze, editor e direttore di collana per piccole case editrici. Culturalmente mi sono formato leggendo Nietzsche, ascoltando musica e guardando cartoni animati e b–movie”.
Ci racconta il titolo del suo primo libro “Cagliosa”: che significa?
“‘Cagliosa’ è una parola del dialetto napoletano, un ispanismo, che significa ‘percossa’, ‘bastonata’, ‘colpo violento’. Oggi, in Campania, viene utilizzata soprattutto in contesto calcistico per indicare un tiro potente, una cannonata, mentre in passato aveva una valenza più fisica e veniva scelta per raccontare una mazzata, uno schiaffone particolarmente forte. Anche Giordano Bruno usava questo termine nel ‘Candelaio’. E visto che il mio romanzo parla di quel calcio un po’ sedizioso e furioso che si gioca fra i dilettanti nella provincia napoletana ho pensato che ‘cagliosa’ potesse essere il titolo più adatto. Non me ne sono ancora pentito. Il termine ha qualcosa di evocativo, e mi piace come suono”.
La trama gira intorno al gioco del calcio: come mai questa scelta?
“Il calcio è una cornice ideologica e fenomenologica che mi è servita per parlare della periferia di Napoli attraverso un’inquadratura più precisa e ridotta. Mi sono concentrato sul campo da calcio, come se fosse un palcoscenico dove inserire i personaggi e farli muovere liberamente. Di là da quel limite, avevo paura che questi stessi protagonisti, per le loro caratteristiche, sarebbero stati sfuggenti o eccessivamente grotteschi. Mi interessava anche raccontare lo spropositato potere concettuale che il calcio acquista in certe realtà di disagio sociale o marginali, dove diventa più che una ragione di vita”.
Dunque, l’ispirazione è stata dettata dal pallone?
“Nel posto in cui sono cresciuto, i bambini giocano a pallone dalla mattina alla sera e i grandi passano le giornate al bar a parlare dell’arbitro che non ha dato il rigore e del presidente che non ha saputo comprare un terzino adatto al modulo di gioco dell’allenatore. Pur non avendo mai vissuto il calcio come una vera e propria passione, anch’io ho giocato per strada e ho seguito centinaia di partite in televisione: è un fatto culturale, tanto esecrabile quanto inevitabile. E quindi sì, il pallone è stato d’ispirazione”.
Come spiega il suo interesse per il gioco ormai noto a livello internazionale?
“Mi intriga il potere che esercita sulle persone. Trovo meraviglioso e insieme spaventoso il fatto che esista gente che vive, gioisce o si dispera per questo sport: per la partita in TV o allo stadio. Certi momenti del calcio giocato riescono ancora ad affascinarmi esteticamente, e ogni tanto mi affeziono a qualche calciatore che mi sta simpatico o di cui mi piace il modo di interpretare il gioco. Su tutto mi diverte il calciomercato. Ossia il momento in cui non si gioca, perché il campionato è fermo, ma è possibile immaginarsi come cambieranno le squadre comprando questo o quel giocatore. Non mi scandalizza il fatto che il calcio sia diventato un’industria e che il gioco sia corrotto da interferenze politiche e commerciali e da pressioni estere. Anzi, tutto ciò rende la cosa più complessa e strutturata, quindi più interessante”.
La sua scrittura è molto particolare: perché introdurre l’uso del dialetto napoletano?
“Ho scelto di usare il napoletano per divertirmi con la scrittura, per giocare con forme espressive non consuete e adattare il linguaggio parlato in periferia, che a mio giudizio non ha mai avuto un’onesta sistemazione letteraria, alla prosa. Credo che all’inizio sia stato l’argomento stesso del romanzo a suggerirmi di osare espressioni dialettali. Da lì in poi ho operato una scelta estetica. Penso che la contaminazione abbia giovato allo stile, che altrimenti sarebbe stato più incerto, lento e affaticato”.
Pensa che il testo, in questo modo, possa arrivare a tutti?
“Probabilmente no. Per chi non conosce certe parole la lettura potrebbe diventare un po’ più complicata del previsto, è vero. Ma non credo possano presentarsi difficoltà interpretative insormontabili. Tutto sta nell’entrare nella logica della lingua. I termini più oscuri e particolari possono essere afferrati a senso, oppure c’è Google. E poi ‘Cagliosa’ non è un testo puramente dialettale: è scritto in italiano con innesti di terminologia gergale, espressioni tipiche del parlato e con dialoghi che ricalcano più o meno fedelmente lo slang che si sente per strada”.
Quanto di autobiografico c’è all’interno di “Cagliosa”?
“Poco. Ci sono frammenti di storie che ho ascoltato o che ho vissuto indirettamente. Poi c’è qualche dettaglio personale gettato qui e là, ma più per gioco che per altro. Nomi, scorci, riferimenti. Ho parlato di una realtà che conosco bene ma a cui non appartengo. Il protagonista di ‘Cagliosa’ è un delinquente figlio di un altro delinquente. Io mi ritengo una persona pigramente onesta, e mio padre era un militare disciplinatissimo”.
Che ne pensa dell’attuale situazione che vive l’editoria nostrana?
“La situazione mi appare stagnante, con la crisi del settore che viene evocata ogni cinque minuti per giustificare compromessi sempre più mortificanti per la cultura e per il mestiere della pubblicazione di libri. Ma da ciò che si sa, l’editoria non è mai stata un’attività consacrata al primato di ideali artistici né un’industria culturalmente illuminata: si è sempre puntato al guadagno, a discapito della qualità e della ricerca. Per poter scrivere, l’Ariosto dovette farsi schiavo di Ippolito d’Este, a cui poi dedicò l’‘Orlando furioso’ senza ricevere alcun plauso; Nietzsche, Proust e Svevo pagarono per essere pubblicati. Joyce non vendette neanche cinquanta copie con il suo primo romanzo. Dall’invenzione della stampa in poi, gli editori hanno conosciuto diversi momenti di crisi, ma è ovvio che oggi tutto sia ancora più esasperato, perché l’offerta si è espansa a dismisura a fronte di una domanda minima. Al di là degli inquietanti fenomeni dell’editoria a pagamento (che spesso è una vera e propria forma di frode, un approfittarsi dell’ingenuità di vanagloriosi autori, infatti, nel mondo anglosassone questo tipo di editoria si chiama ‘vanity press’) e dei piccolissimi editori senza distribuzione, mi fanno specie anche quei nomi che fondano tutto il loro lavoro sul potere di consorteria, e dunque su una presunta importanza fondata sul niente. Non credo che Amazon sia il problema. Non mi convince neanche tutto il dibattito sul dovere morale del lettore di frequentare e sostenere le librerie. Le librerie, spesso, sono luoghi tristissimi, gestiti da gente senza passione. Bisognerebbe inventarsi qualcosa di nuovo, evolversi. E queste novità dovrebbero interessare tutti: autori, editori, distributori, librai e lettori”.
Che valenza dà alla poesia?
“La poesia dovrebbe essere in grado di dire ciò che non si può dire in modo razionale, narrativo, matematico e analitico. Ma non so se è più in grado di farlo. Di sicuro c’è riuscita in passato. Ciò che ci dicono Marziale, Dante, Leopardi, Keats, Hazef di Shizar, Schiller, Mallarmé, Pasolini, Caproni, Ungaretti e altri grandi poeti è un suono che è insieme significato, emozione, domanda, risposta e dubbio, è qualcosa di cui, oggi, forse si è persa la sensibilità. Sia nella creazione che nella ricezione. Provo ogni tanto a leggere poeti contemporanei. Mi sembrano tutti atoni, derivativi, inutilmente sciatti o sciattamente inutili. Certe volte penso che la poesia dovrebbe riconoscere la propria fine. Andare a morire in un punto nascosto, come fanno gli elefanti. Ovviamente spero di essere contraddetto dalla nascita di un grande poeta”.
Infine, una curiosità: che ne pensa della trasposizione televisiva o cinematografica dei romanzi? Dunque, si sente di esprimere una sua opinione sull’attuale messa in onda de “L’amica geniale” (Elena Ferrante) in onda su RaiUno?
“Mi piace molto il cinema, e trovo anche interessante il lavoro di trasposizione da opera narrativa a produzione cinematografica. Si tratta di una traduzione, in cui bisogna per forza mutare codice, perdere qualcosa per trovare qualcos’altro. Ho visto qualche puntanta della fiction basata sui romanzi della Ferrante. Mi è piaciuta. Le attrici sono molto brave, il regista sembra avere una sua visione poetica. Anche se non mi hanno molto convinto le scene iniziali, con quell’atmosfera così artefatta e la scenografia palesemente miserabile, poco credibile. In generale penso che sia un ottimo prodotto pop”.
Annalisa Civitelli