Nata a Milano nel 1920, da una famiglia di origini ebraiche, Alma Franca Maria Norsa, in arte Franca Valeri, esordisce nel mondo dello spettacolo con le sue caratterizzazioni e caricature. Già dai primi anni ’50 calca il palco del Teatro Gobbi e lavora nel cinema, in particolare con Federico Fellini e Alberto Lattuada, e in seguito con Vittorio Caprioli e Luciano Salce. La sua carriera è lunghissima: tra radio, scrittura, teatro e lirica si è distinta lasciando una traccia indelebile nel vasto scenario culturale italiano
“La comicità non è un dono di natura, è un lavoro del cervello“, affermava. Il 31 luglio scorso aveva raggiunto la soglia dei cento anni e a distanza di dieci giorni la Valeri ci lascia in silenzio. Un’eredità immensa quella dell’artista milanese, romana di adozione, scrittoria e poliedrica figura dalla comicità tagliente e dalla capacità recitativa innata.
Dalla Signorina Snob alla Sora Cecioni fino a Cesira la manicure – i personaggi femminili emblematici –, Franca Valeri entra di diritto nel panorama comico italiano: una donna che ha saputo lottare per il suo spazio al di là degli stereotipi, raccontando l’alta borghesia e il suo perbenismo, e la gente comune nella sua più profonda romanità.
L’artista, in modo sagace, ha inquadrato il suo sguardo su una società in ri–costruzione, in cerca di un’identità; il mondo delle donne soprattutto. Quell’universo femminile che negli anni ’50 cercava e desiderava indipendenza, come lei.
”La nostra generazione era preparata. La preparazione non è solo forza fisica, ed è indubbio che noi siamo più robusti dei giovani, l’esercizio è soprattutto di genere morale”. (Franca Valeri)
Sempre elegante e raffinata, ha saputo avvicinare gli italiani del dopo guerra agli show ben fatti e pensati, in cui i suoi sketches si innestavano lungo il corso di ogni singola puntata con classe. Ci ha donato risate e non solo: un’educata professionalità, quella di altri tempi che ha mantenuto viva fino alla fine.
Franca Valeri: un talento naturale
Noi eravamo piccoli quando lei già era famosa, ma ce la ricordiamo al telefono – elemento di scena immancabile – come receptionist o con la mamma, mentre teneva la sua inseparabile limetta per le unghie in mano e le sue acconciature originali, simili a impalcature. Immagini sfocate dal tempo, tuttavia indelebili.
Ancor meno la possiamo ricordare a teatro, se non di recente: l’ultima performance, cinque anni fa, al teatro della Cometa di Roma ne “Il cambio dei cavalli”, per la regia di Giuseppe Marini, dove recita accanto a Urbano Barberini. Impeccabile, nonostante la malattia, il morbo di Parkinson, imperversasse.
Una carriera lunga un secolo, dunque, fuori dagli schemi e caratterizzata dallo humor in stile inglese che ci ha strappato molte risate. Un segno ora permanente: lascito intellettuale e storico del ’900, che sarà per i futuri artisti materia di studio affinché affidarsi, con lungimiranza, a un esempio raro di ecletticità intelligente, sagace e di ampie vedute, da considerarsi moderne sin dagli anni ’50.
Annalisa Civitelli