Vivere è un fatto di allenamento
Uscito il 1° ottobre e distribuito da No.Mad Entertainment, l’ultimo lavoro di Arnaud Desplechin si ispira al documentario “Roubaix, commissariat central” di Mosco Boucault. In concorso al Festival di Cannes 2019 e poi presentato in anteprima ai Rendez–Vous a Roma, ‘Roubaix, una luce’ racconta una città in miseria ed educa alla compassione
Nel film ‘Roubaix, una luce’, il regista francese torna a raccontare la sua città e questa volta ne fa la protagonista assoluta. Situata nell’estremo nord della Francia, in prossimità del confine con il Belgio, Roubaix si è trasformata da cittadina industriale e prosperosa al comune più povero della Francia, teatro di piccole e grandi delinquenze.
È in questo contesto che operano il commissario di origine algerina Daoud, interpretato benissimo da Roschdy Zem, e la nuova recluta Louis (Antoine Reinartz), in un luogo in cui la polizia incarna il nemico e al suo passare le persone si ammutoliscono per paura di ritorsioni e si rifugiano nelle case come topi.
Quella in cui Louis si trova ad affiancare Daoud è l’indagine dell’omicidio di una vecchia signora. Le sospettate sono le vicine di casa, Claude e Marie, due giovani donne indigenti e tossicodipendenti, impersonate magistralmente da Léa Seydoux e Sara Forestier.
‘Roubaix, una luce’ è un film diviso in due parti. Nella prima parte ci viene raccontata la città, per la maggior parte off limits, dimenticata e rassegnata, che sembra vivere solo di notte e nel buio (le luci che vediamo sono per lo più quelle artificiali degli interni del commissariato). Siamo così spettatori dei misfatti con cui tutti i giorni la polizia si confronta: nefandezze che accadono giornalmente.
Il commissario si destreggia tra i reati con la compostezza e la naturalezza di chi ha interiorizzato il mestiere, non tanto per gli anni di esperienza, quanto per una predisposizione innata all’empatia, alla comprensione del mondo. È l’impresa che tenta la nuova recluta, ancora offuscata da un senso di inadeguatezza e dalla paura del fallimento.
L’opera è un poliziesco che rinuncia agli stigmi del suo genere. Per quanto coinvolgente, il ritmo è lento. La suspense è retta da un montaggio efficace e da un violino dal suono sinistro che ci accompagna per tutto il lungometraggio, ma le riprese sono composte, prive di quella concitazione da camera a mano tipica del genere.
E ha senso, se pensiamo a quello che succede nella seconda parte del film. Le due sospettate si appropriano dello schermo, in un interminabile interrogatorio che fa emergere non solo le dinamiche del delitto, ma sviscera anche il rapporto tra le due, di dipendenza e di sottomissione l’una verso l’altra.
È puro teatro. E Daoud e Desplechin hanno lo stesso compito: portare a galla la verità, tirare fuori dalle donne quello che faticano a rivelare perfino a loro stesse. Siamo spettatori di una pièce teatrale che è quasi una seduta di terapia. Qualsiasi aspetto emergerà, sarà solo uno dei tanti altri che non conosceremo mai.
Non è quindi la ricerca del colpevole, la denuncia o la condanna. È più la comprensione, la presa di coscienza che siamo tutti, in modi diversi, vittime della società in cui viviamo.
E non si tratta di giustificare il colpevole: Daoud fa il poliziotto e svolge alla perfezione il suo compito di arrestare i colpevoli; è la consapevolezza che il suo ruolo si limita a mantenere l’ordine, ed è mai e poi mai quello di emettere sentenze.
Non è un caso che il passato e le vite di tutti i personaggi siano solamente accennati. Di Claude sappiamo che ha un figlio di sei anni assegnato ai servizi sociali, ma non conosciamo il modo in cui si sono svolti i fatti. Il commissario pensa e ripensa alla sua infanzia, solo rimasto come è (la sua famiglia è tornata in Algeria e lì a Roubaix, luogo della sua infanzia, è rimasto solo lui), però non sappiamo di più. Come a sottrarci le informazioni per non darci la possibilità di giudicare.
“La vita dovrebbe essere incantata come la tua infanzia, ma non lo è”, dice Daoud a Claude, quasi parlando a se stesso, o a tutti, o alla sua città.
Ed è per questo che ‘Roubaix, una luce’ assomiglia al cinema, perché ci dice che vivere è un fatto di allenamento a comprendere la realtà, a essere osservatori attenti del mondo. Non è proprio quello che ci insegnano i film?
Ghila Cerniani
Roubaix, una luce
di Arnaud Desplechin
con
Léa Seydoux Claude
Sara Forestier Marie
Roschdy Zem Daoud
Antoine Reinartz Louis
con l’amichevole partecipazione di Philippe Duquesne
Costumi Nathalie Raoul
Fotografia Irina Lubtchansky
Montaggio Laurence Briaud
Musica originale Grégoire Hetzel
Suono Nicolas Cantin, Sylvain Malbrant e Sthéfane Thébaut
Direzione di produzione e regia Karine Petite e Pierre Lochardet
Distribuzione No.Mad Entertainment
Post produzione Béatrice Mauduit
Produzione esecutiva Martine Cassinelli
Anno 2019
Durata 119 minuti