Un’imperdibile scoperta
Girata per Netflix, la serie documentaria a sette episodi, diretta da Martin Scorsese, è il ritratto di una donna irriverente e ironica, e della sua personale visione della vita in una metropoli come New York
Sono amici di una vita, Scorsese e Lebowitz. Che il regista trovi la scrittrice e comica americana irresistibile si era già capito: nel 2010 le aveva dedicato un documentario dal titolo “Public Speaking” (tradotto in italiano con “La parola a Fran Lebowitz”).
La serie per Netflix, ‘Fran Lebowitz – Una vita a New York’, ne è la naturale prosecuzione e la sintonia tra i due si percepisce: a ogni freddura di Lebowitz, Scorsese erompe in una fragorosa risata.
Non si può incasellare, Fran Lebowitz. Nata nel New Jersey da una famiglia di ebrei immigrati, parte negli anni Settanta alla volta di New York, dove per sbarcare il lunario fa le pulizie, lavora come venditrice ambulante e diventa taxista (unica donna a svolgere il mestiere nella Grande Mela degli anni Settanta e perciò non vista bene dai suoi colleghi).
Poi inizia a lavorare come editorialista per “Interview”, periodico creato, tra gli altri, da Andy Warhol, con il quale – dichiara lei – non è che vada proprio d’accordo.
Perché la Lebowitz non si può incasellare? Prima di tutto, perché non è identificabile con un solo mestiere.
Lebowitz è scrittrice (ricordiamo le raccolte di saggi “Metropolitan Life” e “Social Studies”, pubblicati rispettivamente nel 1978 e nel 1981, e “Mr. Chas and Lisa Sue Meet the Pandas”, libro per bambini uscito nel 1994), ma è poco prolifica. Tuttavia lascia il segno con il suo stile politicamente scorretto, ironico e pungente e poi smette, come se non avesse più niente da dire.
È anche comica: ospitata da anni negli show d’America per far ridere con i suoi commenti mordaci, con le sue idee sulla vita e sulla metropoli, che rende assolute e che enfatizza fino a farne oggetto di umorismo. È anche attrice, e il grande pubblico forse la ricorderà nel ruolo della giudice proprio nel celebre “The wolf of Wallstreet” di Scorsese.
La serie si costruisce in fase di montaggio e alterna luoghi d’incontro diversi e interviste nuove e vecchie, collegate dal fil rouge degli argomenti cari alla Lebowitz. Si parla di New York, di una vita urbana amata e odiata (soprattutto amata), di denaro, dei viaggi in metropolitana, dello sport, del mondo della cultura, di una società osservata da dietro a quegli occhialetti tondi e filtrata dal pensiero arguto di Fran.
Si ride di argomenti seri, si riflette parecchio e si apprende forse l’unica grande lezione: che non ha senso cercare di essere qualcos’altro, così come non ha senso cercare di essere una cosa soltanto.
Lebowitz è una logorroica. Una fumatrice accanita. Un’apparente misantropa che alza gli occhi al cielo davanti all’omologazione, che cerca la lite, che rifiuta la tecnologia tanto da non possedere nemmeno un telefono cellulare. Si autoproclama l’unica in tutta New York a non camminare per le strade della metropoli con la testa china sul cellulare, l’unica a trovare il tempo per fermarsi a leggere le targhe esplicative affisse ai muri.
È contraddittoria, libera e per questo non incasellabile. Se apparentemente si presenta come una solitaria, che mal sopporta gli altri e che farebbe della lettura accanita la sua unica attività, la scopriamo anche una grande frequentatrice di feste, una snob abbastanza da non accontentarsi di un appartamento che non costi molto di più di quello che possa permettersi e di abiti che non siano sartoriali e fabbricati su misura per lei (iconica la sua tipica divisa, praticamente la stessa dagli anni Settanta).
Quindi, perché la serie ha stregato tutti? Perché la sua protagonista non vuole compiacere, né rendersi modello o rappresentante. Il suo genio risiede nel cogliere i suoi tratti distintivi e farne dei valori assoluti, portandoli all’iperbole, mentre imperterrita continua a osservare il mondo attorno a lei.
Bisogna dirlo: fa impressione vedere Lebowitz girovagare per la città, lamentarsi delle grandi folle e delle orde di turisti, ora che le città hanno ridisegnato i propri assetti e che gli spazi comuni hanno assunto un significato diverso.
Dà dunque quel pizzico di nostalgia sapere che le riprese sarebbero terminate appena prima dell’inizio del lockdown e che di lì a poco il mondo sarebbe cambiato, che quell’abitare la città in libertà, come se fosse il salotto di casa propria, non sarebbe più stato possibile nello stesso modo.
Fa venire voglia di attendere il tempo necessario e poi riprendersi i propri centri urbani, piano piano, e tornare a viverseli appieno nelle loro magnifiche contraddizioni.
Ghila Cerniani
Fran Lebowitz– Una vita a New York
di Martin Scorsese
Produttori esecutivi Fran Lebowitz, Josh Porter, Martin Scorsese, David Tedeschi, Ted Griffin, Emma Tillinger Koskoff e Margaret Bodde
Fotografia Ellen Kuras
Montaggio David Tedeschi, Damian Rodriguez
Genere Documentario
Anno 2021