Danilo Mauro Malatesta:
“La fotografia come era nel mondo come è”
In occasione della mostra ‘Schegge mistiche: dalla frantumazione del credo all’inviolabilità del simbolo’ in esposizione dal 20 al 27 ottobre alla Galleria Pietrosanti G.d.A., zona Borgo a Roma, si potrà ammirare un’opera che, decisamente, desidera catturare l’attenzione di tutti.
Il foto reporter, con esperienza ventennale alle spalle, in questo spazio ci racconta sia il perché della sua esigenza, sia il fatto che lo ha spinto a riprendere un’antica tecnica: la “Wet Plate Collodion”. Il concetto insito vuole scuotere le coscienze, recuperare quindi i valori mediante piccole cose, quelle essenziali, ma soprattutto attraverso una frantumazione pensata e ragionata.
Una sorta di narrazione spirituale. Lavorando infatti con l’immagine della Sacra Sindone – ci spiega – durante un periodo di lavoro durato sei mesi, ha cercato di trovare l’intensità giusta del vetro, quello delle lastre, suo strumento di lavoro. Il risultato sono fotografie di una trasparenza, di una profondità e una tridimensionalità peculiari, senza grana né pixel.
Di qui il concetto di “Ambrotipia”, termine derivante dal greco, che significa eterno. Le immagini sono dunque uniche, per intenderci “quando l’imperfezione diventa perfezione”.
Asserisce l’artista che si sente un disastro nel parlare, un misto tra Francesco Totti e Checco Zalone, ma possiamo assicurare che le sue parole e le sue idee ci sono rimaste impresse, quasi come un tuffo nel passato in cui abbiamo riscoperto un mondo nostalgico e senza tecnologia.
Danilo Mauro Malatesta, qual è stata la sua formazione per giungere alla sua attuale professione?
“Ero già affascinato dalla fotografia sin da ragazzino e, terminato il liceo, dall’età di 15/16/17 anni andavo a stampare in uno ‘Studio Roberto Russo’ di Monica Vitti. Mi sono così appassionato alla camera oscura. Ho conosciuto successivamente Glauco Cortini (fotografo di Virna Lisi), il quale ho cominciato ad affiancare, avvicinandomi così al mondo del cinema e dello spettacolo. Andavo, infatti, a casa di personaggi famosi, come Sofia Loren e tanti altri, e ho cominciato a rubare i segreti del mestiere. Dopo ho avuto il piacere di incontrare Pierluigi Praturlon, il quale lavorava con Federico Fellini. Quando sono cresciuto e maturato ho trasformato questo lavoro con la cronaca, lavorando con “Paese Sera”, “La Repubblica”, “Corriere” occupandomi della Cronaca di Roma, fino a quando è arrivato il primo viaggio in Africa occidentale (Kenya), durato 10 anni: è iniziata così la mia carriera da reporter”.
Dallo spettacolo alla cronaca, dunque?
“La molla è stata proprio la possibilità di stare a contatto con Glauco, scoprendo di conseguenza la mia vera vocazione. Ho trascorso infatti gli anni della mia gavetta “consumando i pantaloni sui sedili degli aerei” ma, allo stesso tempo, ho avuto modo di lavorare con persone importanti nel mondo del giornalismo. Ho affiancato Massimo Alberitti, per esempio, in Somalia, mentre con Ettore Mo sono stato in Afghanistan (pubblicando sul “Corriere della Sera): loro facevano il vero lavoro del reportage. Durante i viaggi, però, il 90% delle volte si hanno delle delusioni: si va in posti dove si muore di fame e la gente non ha nulla, e l’editoria raramente si schiera dalla loro parte. Ho visto molte cose brutte, a volte sentendomi un ‘fotografo becchino’. Posso comunque affermare che l’Africa è un paese stupendo ma rovinato e devastato. Sono ritornato in Italia nel 1997 e due anni fa sono andato in Etiopia, un po’ per nostalgia, poi perché sentivo l’esigenza di raccontare una situazione particolare: erano quasi vent’anni che mancavo e la situazione in loco non è cambiata, bensì peggiorata”.
Dai moderni reportage alla ripresa di una tecnica fotografica antica: quale esigenza l’ha spinta ad affrontare tale sperimentazione?
“Trovo che oggi ci sia un bombardamento digitale e il fatto che mi sia appassionato a questa ‘procedura’ è perché mi fa apprezzare ancor di più la solidità concettuale dell’immagine analogica, quindi scritta con la luce. Ritengo ci voglia molto coraggio per affrontarla: lavorare con la ‘Wet Plate Collodion’ dà delle forti soddisfazioni, in quanto crea un intenso dualismo tra pittura e fotografia. Mi spiego meglio. Se si desidera fare un ritratto a una persona (già vuol dire impiegare mezza giornata di lavoro) si entra in empatia con il soggetto e l’80% delle volte si avrà una lastra con una straordinaria ricchezza di toni e un’incredibile sensazione di tridimensionalità, a cui il digitale non arriva, poiché troppo tempestivo e più puntuale sull’attualità; fa decisamente perdere il senso della fotografia, divenuta come la scultura e la pittura. Attualmente ritengo infatti ci sia un altro modo di affrontare il linguaggio fotografico ma il concetto per me rimane: ‘la fotografia come era nel mondo come è’”.
Ci spiega in che consiste la procedura della “Wet Plate Collodion”?
“Per lavorare il collodio umido, che è appunto una soluzione a base alcolica, bisogna sensibilizzarlo con degli ioni di argento che si trovano anche nella carta da stampa in bianco e nero. Bisogna fare molta attenzione: in questa tecnica c’è molta chimica e, inoltre, è piena di varianti. Il metodo che normalmente si utilizza è spalmare la soluzione sul vetro; quando essa diventa un po’ secca si può impressionare la lastra. Si prende quindi la ‘cassetta’ e si inserisce nella macchina fotografica, con un set già pronto per lo scatto. La lastra in questo modo – nel banco ottico – si impressiona di luce. Segue lo sviluppo in camera oscura, che tira fuori il negativo e, infine, avviene il fissaggio. La lastra di conseguenza si trasforma in un positivo leggero, che può essere stampato a contatto sulla carta oppure, se messo su un fondo nero, risulta positivo. Il risultato sono immagini uniche che hanno una profondità, una tonalità e una tridimensionalità peculiari, in cui non ti trovano né grana, né pixel, ma una trasparenza infinita”.
Perché affrontare il tema della spiritualità proprio in tempi dissacranti: uno stimolo al recupero dei valori?
“Secondo me, Dio o ‘chi per lui’ ci ha creato atei. Dipende però dalla formazione che poi abbiamo avuto da bambini: siamo diventati cristiani, agnostici, musulmani o rimasti atei. Se si decide di essere Cristiano, comunque, trovo che bisogna rispettare il simbolo della croce, non si può di certo ‘calpestarlo’. Il gesto di spaccare le lastre (come potrete notare dall’esposizione) per me non è stato un divertimento né un rinnegare la figura di Cristo e fare quindi un atto blasfemo, anzi. Dato che viviamo un periodo storico particolare invaso da timori e da paure, soprattutto da una profonda instabilità emotiva, con questo messaggio – intenzionalmente – desidero rafforzare, attraverso la rottura, l’immagine di Gesù, affinché ricompattarla. Mediante questo “simbolo”, che porta in sé pace e serenità, bisognerebbe riscoprire la ‘coesione’, per ritornare a un’unione: perché quel ‘simbolo’ ha creato un’umanità. Invece di proteggere la rappresentazione di Cristo e valorizzarla, però, più andiamo avanti, più la prendiamo a calci”.
Il tema centrale della mostra “Schegge mistiche: dalla frantumazione del credo all’inviolabilità del simbolo” è la decomposizione del corpo umano: si vuole, quindi, contestualizzare una perdita della nostra interezza?
“L’azione di frantumare la lastra penso sia un ricongiungimento ai valori: la risposta all’interezza umana, che stiamo perdendo e, al contrario, dovremmo riconquistare”.
Cosa ha acquisito dalla sua esperienza di foto-reporter?
“La fotografia si impara per strada, anche sbagliando. Non si studia, si fa. Chi insegna la fotografia ritengo sia un grande teorico, che conosce sia l’estetica, sia la storia. La fotografia è soggettiva: imparare la fotografia vuol dire scattare. Studiare la fotografia per comunicare qualcosa è molto importante, soprattutto con la tecnica che ho utilizzato per la mostra: si esce con una foto e, in quella foto, dici tutto”.
Nell’era di “Instagram” e dell’abuso dei social sotto la forma degli inflazionati “selfie” e non solo, dove ognuno ormai si erige a “Fotografo di Professione”, che ruolo assume, oggi, nel settore dell’arte visiva la fotografia come lavoro?
“Purtroppo credo che il lavoro del fotografo o del foto reporter non esistano più: sono in pochi ma bravi. Per esempio, è dura sopravvivere nelle zone di guerra, perché ormai anche la popolazione possiede un cellulare, quindi si ha tutto in pochi minuti. Nel raccontare, oggi, bisogna essere taglienti e trovare un altro modo di descrivere i fatti, dar loro un taglio differente, per cogliere un particolare adatto all’articolo”.
L’immagine propriamente detta, studiata e selezionata, perché dovrebbe ancora rappresentare una forma d’arte da seguire?
“Il reportage deve essere studiato, vuol dire raccogliere più informazioni possibili affinché chi esce da una galleria possa dire: “Ho visto una foto”. Ci si deve di conseguenza emozionare, la foto deve far venire i brividi”.
Quali sono stati i suoi punti di riferimento?
“Felix Nadar, francese, il quale si è distinto nel campo della fotografia grazie all’utilizzo di macchine ingombranti per fare ritratti di reportage; Salgado e Man Ray”.
Che valore attribuisce all’arte fotografica?
“La ho tatuata nel sangue, personalmente la ritengo importante ai fini del racconto di una storia”.
Lo scatto più bello?
“Lo devo ancora fare”.
Annalisa Civitelli
La mostra è sponsorizzata da Vatican Tour e dalla Tipografia Brandi