Fabio Galadini
“Lo scopo del Fringe è quello di creare una vetrina autorevole e professionale per tutti, conosciuti e non”
Fabio Galadini, Direttore Artistico del Civita Castellana Festival e del Fringe Festival di Roma, opera da molto tempo in campo teatrale.
Lo abbiamo incontrato per approfondire la realtà del Fringe che, conclusosi lo scorso 26 luglio, è arrivato alla sua undicesima edizione, riscontrando molte novità: dalla finale che ha vissuto una serata conclusiva del tutto diversificata rispetto le precedenti edizioni al coinvolgimento del teatro Trastevere di Roma dove le compagnie hanno svolto il loro laboratori, facendosi conoscere da un pubblico più ampio.
In funzione di ciò, già per il Roma Fringe Festival n° 12 si sta pensando a incontri tra operatori che lavorano nel comparto teatro e non solo.
Galadini stesso inoltre ci illustra quanto, per organizzare un Festival, sia fondamentale costruire una struttura solida a partire dallo staff per far funzionare la macchina Fringe al meglio e donare al pubblico prodotti qualitativi sempre migliori. Oltre ad aver analizzato il funzionamento della rassegna estiva e quello che offre, con il suo Direttore abbiamo allargato il pensiero parlando sia della situazione teatrale attuale sia degli spettacoli che sono andati in scena.
Il teatro tuttavia non è morto definitivamente, spiega Galadini: alcune cose ci sono ma bisogna saperle scovare. E questo ci rassicura.
La manifestazione, infine, che si svolge nella città eterna nel mese di luglio, registra quello che accade nella realtà sia per dare una possibilità a ciò che ci circonda di essere raccontato dalle compagnie teatrali – che partecipano al Bando – sia per offrire un’occasione a chi viene selezionato e arriva fino in fondo.
Fabio Galadini, l’11ª edizione del Roma Fringe Festival è terminata da poco: cosa si porta dietro da questa esperienza?
“Questa è stata un’edizione che segna un cambio di rotta. Oltre al teatro Vascello quest’anno c’è stata anche la disponibilità di altri due teatri importanti privati di Roma, la Sala Umberto e il Parioli, facendo sì che aumentasse un’orizzonte già abbastanza forte sulla capitale. È un inizio di una nuova struttura, perché lo scopo del Fringe è quello di creare una vetrina autorevole e professionale per tutti, conosciuti e non.”
Questa apertura ha ampliato la richiesta di pubblico e ha aumentato la vostra visibilità?
“Sì. Il pubblico è aumentato rispetto l’anno scorso, considerando che la rassegna si è svolta nel mese di luglio. Soprattutto, quest’anno, con la ripresa post pandemia e l’intenzione di creare un progetto di grande evidenza nazionale – di teatri noti su Roma –, ma anche con una diversa formazione di chi aderisce a Zona Indipendente: abbiamo avuto infatti il sostegno della Fondazione Teatro Campania e del Teatro Kismet, organizzazioni, sistemi di diffusione e di distribuzione forti, differenti rispetto ai piccoli teatri off che comunque restano perché rispecchiano delle specifiche identità. Però il nostro obiettivo rimane: da sempre è stato quello di creare un sistema di visibilità rivolto agli sconosciuti e non.”
Quindi le organizzazioni che sono subentrate quest’anno vi hanno portato più visibilità al di fuori dei confini capitolini
“Certamente. In realtà tale visibilità al di fuori dei confini romani già l’avevamo. Tutto questo inoltre è finalizzato a mettere nelle condizioni di chi sta fuori a entrare nel nostro circuito, dandoci modo di constatare quale sia il panorama italiano in termini teatrali. Quello che noi ‘prendiamo’ e selezioniamo lo accogliamo: accogliamo infatti chi si iscrive – e sono tante le compagnie che partecipano al bando – cercando di ‘prendere il meglio’ – per poi fare una sintesi che sia la più qualitativa ed efficace possibile, per descrivere appunto lo scenario che ci si presenta. Naturalmente quello che arriva è il test della situazione che viviamo: se un festival è di minore qualità è perché in quello specifico anno c’è minore qualità in generale.”
Noi abbiamo seguito il Fringe e abbiamo riscontrato drammaturgie cupe e tragiche: quale motivo ha spinto le compagnie, secondo lei, ad affrontare questo tipo di stati d’animo?
“Secondo me rispecchiano la situazione italiana, nello specifico quella della scrittura. Quando si fa il comico si deborda, si va sul commerciale, sul televisivo. C’è un confine netto in Italia nella drammaturgia tra quella impegnata e seria, e quella comica. Non esiste più una via di mezzo: quando si fa il comico – come ho detto prima – si fa il commerciale, il televisivo. Sono tuttavia rari gli esempi di cui si può parlare in cui si percepisce una scrittura satirica che può echeggiare alcune scuole della comicità italiana. Noi, all’interno del Fringe, abbiamo trovato alcuni spettacoli spassosi come ‘Genesi del rigenero’ che ha vinto lo Spirito Fringe in quanto rientra nella ‘brillantezza’ della rassegna e, inoltre, l’interprete ha un talento naturale e mai visto. Ma, ripeto, sono fenomenologie rare poiché se il modello di riferimento drammaturgico in Italia per la comicità ‘rimane’ quella televisiva noi ci rifiutiamo di prenderla. Ci sono altri palcoscenici su cui potersi esibire.”
Ci descrive invece lo spettacolo che ha vinto il Fringe di quest’anno
“Per esempio ‘Due schiaccianoci’, la rappresentazione vincitrice di questa undicesima edizione della manifestazione teatrale, reputo sia un testo brillante che a tratti sembra Ionesco. Alice Bertini, che ha curato la drammaturgia, ha saputo unire il comico e il tragico insieme. Il risultato si può definire un bel lavoro: il testo è scritto bene, la pièce è eseguita in maniera impeccabile, gli attori sono bravi e il disegno registico si può definire un gioiellino. È quindi importante sottolineare questo pensiero, perché oltre ad affrontare il tema del ‘contropotere’ lo spettacolo sa intrattenere il pubblico che esce dalla sala con ‘qualche cosa in più’ rispetto a ciò che si vede di solito.”
Lei ha preso le redini di Direttore Artistico del Roma Fringe Festival nel 2019: in quell’occasione in che stato era la rassegna e cosa è cambiato da allora?
“Il Fringe veniva da un momento di crisi, poiché era un momento di crisi dello spettacolo dal vivo in esterno. Nel 2018 la sofferenza di tutti gli operatori era evidente. Nonostante il Fringe avesse avuto una forte spinta negli anni precedenti, l’edizione 2018 è saltata, mentre quella del 2017 è stata difficile da affrontare non dal punto di vista organizzativo e artistico, ma dal punto di vista delle relazioni con l’ente. Intendo con Villa Mercede, con i piani di sicurezza, con i costi incommensurabili: dagli ingegneri ai permessi del Comune. Una follia dunque pensare di fare qualche cosa al di fuori dal teatro per un’iniziativa estiva e in più concepita come una grande festa. Era l’anno ‘zero’, perché con questo impulso che la rassegna aveva avuto e che aveva manifestato grande pubblico all’aperto con appunto un’idea romana di Festival estivo, si è però scontrato con l’Ente stesso e i relativi piani di tutela: proprio l’affluenza di pubblico ha determinato uno sbarramento di sicurezza e di cavilli con l’Ente stesso, con l’Enpal, con il Municipio, con la mano d’opera, con i soldi del Comune.”
A tal proposito, immagino che avrete molti problemi burocratici da affrontare ogni anno: di conseguenza quale piano avete adottato per superare gli ostacoli che ci ha appena descritto?
“Ogni anno andiamo incontro a meno problematiche poiché ho pensato a una strategia diversa: il Fringe lo organizzo dentro i teatri come accade in ogni Fringe del mondo. Ciò che si vede in esterno, ovvero le parate, non è altro che la promozione che le compagnie fanno dei loro spettacoli che però si realizzano dentro i teatri, pertanto non si fa teatro in strada. È un escamotage che impiegano le compagnie teatrali per ‘pescare’ pubblico e portarlo a teatro. Questa operazione purtroppo a Roma non è possibile attualizzarla quindi fare un Festival all’aperto come si faceva sei/sette anni fa. È inattuabile a meno che i soggetti non siano soggetti pubblici tipo l’Assessorato. Ma se questi sono privati, tra l’altro indipendenti – noi non percepiamo nessun contributo pubblico – e lo dico con orgoglio – la collaborazione si stringe con teatri importanti privati. Per esempio, ho iniziato spostando la manifestazione in inverno a La Pelanda – un luogo pubblico che dopo anni sono riuscito ad ottenere –, al chiuso e in un mese quasi morto cioè con la programmazione dei teatri ma che oltre a quello non c’è altro e ha riscontrato molto successo. In seguito però è cambiata l’amministrazione e la concessione de La Pelanda non c’è più stata. Dopo è arrivato il Covid e il Fringe si è svolto in streaming al Piccolo Eliseo. In precedenza peraltro ho chiesto ai teatri chiusi e nessuno ci ha ospitato almeno gratuitamente. L’unico che ha ascoltato l’appello è stato l’allora Direttore Artistico Luca Barbareschi. Per poi arrivare al Vascello e agli altri teatri.”
Dal 27 luglio – immaginiamo – si comincerà a lavorare all’edizione dell’anno prossimo: come si sviluppa il lavoro riguardo la scelta degli spettacoli?
“La scelta degli spettacoli si fa con il Bando: noi pubblichiamo il Bando e a tale Bando partecipano le compagnie. Quello che arriva, secondo una logica che corrisponde alla diversità e all’indipendenza – persone spesso ignote – sarà modulato poi con delle richieste che ci arrivano da piccole produzioni. L’anno prossimo vorrei farlo partire in anticipo: vorrei chiudere il Bando a marzo e fare la selezione prima di aprile per avere un paio di mesi al fine di comunicare chi è selezionato con l’obiettivo di fidelizzare un pubblico che possa essere interessato. È vero che abbiamo avuto un aumento della platea, ma è anche corretto dire che al Fringe partecipano compagnie che provengono da diverse città italiane che possono vantare un sold out oppure no, quindi dobbiamo essere in grado di colmare il gap ovvero uniformare l’interesse verso le compagnie che gravitano sul territorio e quelle che vengono da fuori.”
La selezione delle pièce si basa anche sulle tematiche che affrontano le compagnie teatrali ovvero seguite un filo conduttore?
“Il Fringe non ha un ‘filo conduttore’: ci sono tematiche che spesso vengono sollecitate dal Bando o che vengono discusse in sede congressuale nei Fringe. Abbiamo tuttavia dato un titolo – ‘Riprendiamo a respirare, riprendiamo a fare’ – perché il Fringe è aperto a tutti, a chiunque.”
“Riprendiamo a respirare, riprendiamo a fare”, presumiamo, sia un motto che avete ideato dopo il Covid. Denomina la libertà, di fare, di stare insieme e di aggregazione?
“Assolutamente sì.”
Lei, in queste due settimane intense, ha visto molte rappresentazioni: in base a questo che opinione si è fatto del livello di recitazione degli artisti?
“Ci sono spettacoli meritevoli e altri meno. In generale ci sono tanti spettacoli in giro come tanta produzione. Rispetto quindici anni fa penso che il livello sia diminuito, si sia molto abbassato. Tuttavia parlo solo del Fringe, mi riferisco anche ad altre programmazioni. Dipende da una serie di problemi che riguardano il nostro Paese, a partire dal modo in cui viene sostenuto lo spettacolo.”
Quindi è diminuita la qualità
“Questo dipende dal ‘sistema Italia’ che ha in qualche modo non solo imbruttito ma anche abbassato il livello culturale. Noi siamo in una fase di ‘analfabetismo di ritorno’ – lo diceva anche De Mauro – molto pronunciata. Trovo ci sia un’esplosione di formazione – teatrale – inqualificata, più aleatoria rispetto al passato. L’attività attoriale sembra essere unidirezionale: il teatro di narrazione e i monologhi hanno vita lunga, per esempio, perché si fanno da soli. È una possibilità economicamente frequentabile per chi vuole fare teatro. Mettere su uno spettacolo con tre/quattro attori al contrario diviene complicato.”
Qual è il segreto della longevità del Fringe e quali reazioni coglie nel pubblico ogni anno?
“Dal mio punto di vista non si crea il consenso prima e poi da quel consenso si determina una struttura, perché quel consenso in assenza di struttura ha vita breve. Prima si fa la struttura, la si consolida e una volta consolidata, da quella struttura positiva si crea una possibilità di assenso. È un po’ l’esatto opposto che fa la politica che parla di tante iniziative, crea consenso, ma non esiste il progetto. Invece quest’ultimo deve esserci prima, deve essere consolidato, anche andando contro i luoghi comuni e ricevendo critiche negative. Noi dobbiamo rafforzare la struttura perché da essa si determina una possibile approvazione. Questa strategia sta funzionando: noi prima abbiamo costruito le basi e da queste abbiamo creato il consenso, che arricchisce e alimenta la struttura stessa. Forte, rafforzata e affiatata, che lavora con un’idea precisa di Fringe. Su questo insieme si sperimenta giorno per giorno, allargandosi e crescendo. Ricordo inoltre che la ‘macchina Fringe’ funziona senza soldi pubblici e migliora. Si amplifica dunque la possibilità del beneplacito da parte del pubblico. Se fosse diverso, quindi partire da un’idea senza che questa non trovi una struttura stabile, quel determinato consenso finisce, dura una stagione.”
La salute del teatro è in via di guarigione o ci sono ancora delle “ferite” da guarire?
“Il problema del teatro è che l’idea di ‘carne e sangue’ va sempre più scemando. Nel senso che spesso i suoi modelli sono altri. Credo che il teatro debba uscire dal sistema pubblico, deve ritornare ad essere trincea e qualche cosa di opposizione, che induca pertanto le persone a riflettere. Finché diventa un ambiente comodo, sostenuto e gradevole, indirizzato al consumo non funziona.”
Annalisa Civitelli