Intervista a Giacomo Faccini
Essere grande non è tanto un fatto anagrafico, quanto una qualità umana
Abbiamo incontrato Giacomo Faccini, un giovane e promettente attore romano che ha appena calcato le scene con una versione piuttosto controversa di “Amleto” di William Shakespeare.
Giacomo è un artista a tutto tondo, ci racconta come tra le sue passioni siano presenti anche la danza e la scrittura, discipline che coltiva tuttora parallelamente alla recitazione.
Giovanissimo, appena 25 anni, Giacomo Faccini dimostra di avere le idee molto chiare in merito al teatro, così come una visione consapevole e ponderata su tutto ciò che gira attorno al mondo dei palcoscenici.
La sua prospettiva è informata e ben strutturata e, senza potergli dare torto, mostra un teatro italiano ancora parecchio zoppicante, soprattutto dopo la pandemia.
Giacomo Faccini, lei è reduce da “Un Amleto”, una rivisitazione della celebre tragedia di William Shakespeare che l’ha presentata al pubblico come un attore dal notevole talento: quale è stata la sua formazione?
“Molto prima di cedere alla tentazione della strada dell’attore, studiavo hip hop e danza moderna in una scuola dalle mie parti (vale a dire, Castelli Romani) e amavo leggere ad alta voce durante le lezioni di letteratura al liceo, soprattutto quando studiavamo Goldoni, Pirandello e la Divina Commedia. Pur avendo un’idea molto vaga di cosa fosse il teatro, creavo delle vere e proprie improvvisazioni in piedi, coinvolgendo tutta la classe e dando adito a una forma di divertimento svincolata dalla rigidità e dall’autocensura che nella maggior parte dei casi inducono le lezioni a scuola.
Partendo da questi presupposti, alcuni miei insegnanti arrivarono quasi a obbligarmi a frequentare il laboratorio teatrale del mio liceo, al quale ho partecipato per due anni di seguito, fino al diploma. Il senso di comunione e di stare insieme che mi davano i primi esercizi di gruppo mi hanno conquistato, ma ancora non mi interessava tanto il teatro quanto il fare teatro.
Tramite il laboratorio ho scoperto una delle realtà teatrali più innovative e attive di Roma, Carrozzerie not, dove ho visto i miei primi spettacoli non forzati dalle gite scolastiche. L’anno successivo, il 2017, vi ho frequentato un laboratorio autogestito con altri ragazzi e la partecipazione sporadica di alcuni professionisti affermati che facevano da tutor rispetto alle nostre proposte.
Da quell’incontro ho deciso di approfondire lo studio della recitazione con un percorso più indirizzato all’ambito professionale, così su consiglio di un amico mi sono iscritto al corso di formazione triennale della scuola di recitazione del Teatro Golden di Roma, conseguendo il diploma nel 2020, l’anno della pandemia. Già dal primo anno ho avuto occasione di partecipare a spettacoli ed eventi in stagione al Teatro Golden e non solo. Ora alterno lavori a teatro e sul set alla frequenza di laboratori per attori e lezioni di Teatro, Cinema e Media alla Sapienza”.
La rappresentazione di cui abbiamo appena parlato, “Un Amleto”, è una messinscena dell’opera Shakespeariana che si barcamena tra la modernizzazione e la sperimentazione, per la regia di Loredana Scaramella: come si è svolta la preparazione dello spettacolo?
“La messinscena di ‘Un Amleto’ ha come origine un saggio accademico del 2019 – sempre per la regia di Loredana – che è stato usato come punto di partenza per questo nuovo allestimento. La prima versione è stata strutturata a partire da proposte di partiture fisiche avanzate direttamente dagli attori coinvolti, adottando come modello i ‘chair duet’ messi a punto dalla società di produzione teatrale inglese Frantic Assembly.
Si tratta di sequenze di movimenti che coinvolgono due o più personaggi seduti di fianco, frontali rispetto al pubblico, che hanno la funzione di raccontare la sostanza intima della loro relazione. In alcuni momenti dello spettacolo, questo processo è accompagnato da musica, in altri avviene sulle battute. Attorno a questo nucleo di partiture fisiche si è articolato il vero e proprio lavoro sulle scene, guidato da Loredana con il contributo ingegnoso di Alberto Bellandi e Laura Ruocco, addetti alla cura dei movimenti scenici e delle coreografie”.
E lei, personalmente, che punto di vista ha sui riadattamenti azzardati di drammi classici?
“Dipende cosa si intende per ‘azzardato’. Per me un lavoro su un materiale diventa azzardato nel momento in cui prendono il sopravvento l’arbitrarietà e il non necessario. Non sono contrario all’inclusione di scelte originali, ma devono avere una coerenza con la necessità del racconto. Avere una grande cultura e un ricco repertorio di immagini è un’arma a doppio taglio. Se nel mettere in scena Amleto vuoi ‘raccontare la storia di Amleto come la farei io’, hai già perso. Tutto si riduce a un’esposizione del proprio ego.
Se invece vuoi condividere attraverso un racconto la tua esperienza umana su un aspetto in particolare per cui quella vicenda è più rappresentativa di altre e metti la tua creatività coerentemente a servizio del racconto, è già qualcosa. A noi interessava raccontare il rifiuto delle nuove generazioni dei ruoli imposti dalle tradizioni portate avanti da quelle precedenti. Se ci siamo riusciti o meno, spetta al pubblico deciderlo. Personalmente preferisco la scena vuota, anche se è quasi un’utopia”.
Lei è talmente giovane che forse non è fuori luogo chiederle: cosa vuol fare da grande?
“È una domanda pericolosa, perché delega a un futuro non precisato il prendere posizione su quello che voglio fare della mia vita. Secondo me, essere ‘grande’ non è tanto un fatto anagrafico, quanto una qualità umana. Esistono situazioni per cui uno può essere grande anche a otto anni. Preferisco chiedermi: ‘cosa voglio fare ora della mia vita?’. Voglio essere una persona più presente. E poi vorrei cambiare casa”.
Sul palco lei si è dimostrato particolarmente dotato, la sua interpretazione di Amleto è stata intensa e molto apprezzata, ma al di là di questo, lei ha altri talenti?
“La danza e la scrittura. Sono le due forme creative che prediligo oltre alla recitazione”.
Sembra che almeno a Roma, finita la pandemia, la scena teatrale si sia rimessa in moto più energica di prima: secondo lei è davvero così?
“Non credo. Vado meno a teatro rispetto agli anni precedenti alla pandemia, ma in generale percepisco un’aridità e una disillusione diffuse che tolgono molta linfa vitale al teatro. Progetti promettenti muoiono o nascono deformi quando chi li guida si lascia scoraggiare dalle condizioni – piuttosto mortificanti – della burocrazia attorno al teatro in Italia.
Chi invece ha più possibilità produttive di altri, raramente si pone il problema di fare spettacoli che non siano fruibili solo dagli addetti ai lavori. Una parte del teatro che si fa nei teatri stabili è autoreferenziale, un monumento decadente alla fine di una pratica non-utile ma civilmente necessaria quale è il teatro.
Ancora più tristi sono quei prodotti teatrali che cercano di competere con il mondo delle serie televisive e dei social prendendone in prestito le tecniche espressive. Cioè, spettacoli che si svolgono a teatro, ma senza teatro. Se si pretende di fare del teatro un’industria, abbiamo perso. Un’industria funziona se c’è richiesta del prodotto. In Italia questa richiesta non c’è, per quanto riguarda il teatro. L’Italia non è Broadway. Tanto più dopo la pandemia e gli inevitabili danni economici che ne sono conseguiti”.
Quali lavori la vedranno impegnato come attore nei prossimi mesi?
“Due spettacoli previsti per la stagione autunnale, più una drammaturgia che sto scrivendo. Come direbbe l’amico danese, ‘il resto è silenzio’”.
Gabriele Amoroso
Ringraziamo Giacomo Faccini per la sua disponibilità.