Melania Giglio: “Il teatro non è un’astrazione intelletualistica, bensì artigianato popolare”
Abbiamo incontrato la famosa attrice italiana non molto tempo fa, in occasione di un suo spettacolo al Teatro Vascello di Roma che accomunava la poesia ai versi di Shakespeare: ‘Dichiarro guerra al tempo’. Il suono per lei è rilevante, è di fatti sempre stato l’elemento imprescindibile attraverso il quale ha sempre percepito il mondo. Ognuno ha la sua voce, dunque, parte indimenticabile di ciascuno.
Proprio tale dono le ha permesso, nella sua carriera, di coniugare la recitazione al canto. L’attrice fa vivere sul palco personalità importanti e riesce, al contempo, a far risaltare la sua voce tra declamazione e le canzoni.
La poliedrica personalità di Melania Giglio punta sempre alla qualità dei suoi spettacoli. Si allena sempre con disciplina e lavora costantemente pensando anche che la sperimentazione non debba essere un mero escamotage, bensì qualcosa che attragga gli spettatori, sia pertinente al testo affrontato ma soprattutto si contamini di altre forme artistiche.
Insomma una persona che conosce bene il suo mestiere e crede fortemente a un teatro popolare, affinché possa rimodellarsi intorno al concetto di “Agorà”: uno specchio che ci faccia ritrovare e ci faccia riconoscere, tutti indistintamente.
La vedremo nuovamente in scena all’Off Off Theatre, dal 6 al 25 novembre, sito in Via Giulia nel cuore della capitale. E noi siamo intrepidi: darà voce a Mia Martini, la famosa Mimì. E non possiamo perderla.
Intanto andiamo a conoscerla meglio!
Melania Giglio, da “Voce di donna” a “Edith Piaf”, fino a “Dichiarro guerra al tempo” in cui le incursioni sonore si affiancheranno ai sonetti di Shakespeare. Che valenza ha per lei la musica?
“Per me la musica è importantissima. Per esempio, queste ultime due stagioni teatrali sono state particolarmente fortunate sotto questo punto di vista, poiché ho trovato Direttori Artistici e Produttori piuttosto ‘illuminati’, che mi hanno consentito di attuare questa contaminazione musicale molto forte anche in contesti dove – forse – i puristi non me lo avrebbero consentito. A onor del vero, anche per rendergli il giusto ringraziamento, il primo che me lo ha concesso è stato Gigi Proietti. Già quattro anni fa, infatti, il primo esperimento che ho fatto è stato sempre sui sonetti di Shakespeare, con la mia regia, poi ripreso per quattro anni al Globe Theatre di Roma e inserito anche nella stagione che si è da poco conclusa. E’ stato dunque il primo di questo filone fortunato e interessante a cui ho proposto di contaminare la musica rock e pop con la poesia alta, proprio per renderla più fruibile da tutti, per creare degli spettacoli che avessero una commistione di generi”.
Questo per andare fuori dai canoni classici?
“Si, esatto. Mi piaceva l’idea di attuare una vera sperimentazione. Oggi, secondo me, in Italia c’è un equivoco proprio sulla parola ‘sperimentazione’. Trovo che sia troppo abusata e usata in modi poco significativi dal punto di vista della storia teatrale. I modi di sperimentare oggi sono diventati essi stessi dei cliché, perché sono i medesimi degli anni ’70”.
In che modo, quindi, secondo lei – parlando appunto di sperimentazione – può evolvere il sistema e dunque uscire fuori dai cliché?
“Questa è la ‘grande’ domanda, che mi pongo tutti i giorni e per ogni spettacolo che porto in scena. La risposta che mi sono data è particolarmente visibile in ogni rappresentazione che propongo, soprattutto in quelle svolte nell’ultimo triennio, che sono state molto significative per me. Quindi, per esempio, venendo da Ronconi, noi partiamo dal testo. Ogni forma di innovazione è una visione nuova dello stesso. Un esempio molto concreto che posso fare è che nel “Macbeth” portato in scena al Globe per la regia di Daniele Salvo. Si doveva risolvere la famosa scena del banchetto di Duncan e il regista ha pensato di evocare “L’ultima cena” di Leonardo: Duncan diventa così Cristo. Dunque, una cosa molto pertinente rispetto a ciò che il testo comunica: Duncan visto come bene, come Santo, rispetto al Macbeth, Angelo caduto e luciferino. Di conseguenza questa scena si apriva con un doppio piano, dove in fondo il regista ha creato appunto “L’ultima cena” leonardesca. Secondo me, sono queste le vere innovazioni: rappresentare una scena in un modo in cui nessuno l’ha risolta prima. Non appiccicarci sopra la propria idea, quindi un “facile” escamotage oppure delle scorciatoie”.
Come interpreta, dunque, la sperimentazione?
“La sperimentazione la intendo come una sorta di contaminazione, una forma di ispirazione data da altri linguaggi artistici, però sempre in modo relativo al testo oppure un modo innovativo di usare le tecnologie: la rivoluzione tecnologica, infatti, è sicuramente una strada. Per questo lavoro sui sonetti in ‘Dichiarro guerra al tempo’, invece, la strada dell’innovazione è partita da una domanda: “La poesia spaventa il pubblico?”. Essa viene di fatti percepita come faticosa. Sono partita da qui per contaminare un elemento poetico con quello musicale. Le grandi canzoni d’amore e quelle sull’esistenza sono in fondo i moderni sonetti. Sono delle poesie in musica: i sonetti ai tempi di Shakespeare erano dei pezzi pop, quelli che tutti usavano per fare le dichiarazioni d’amore. L’ho fatto per ricordare a tutti – soprattutto agli intellettuali auto riferiti che vanno, secondo me, contro il teatro – che il teatro e la poesia erano dei fenomeni popolari. Il vero teatro, per me, ha una radice fortemente popolare”.
Per “pop”, invece, che intende?
“Per ‘Pop’ intendo che il teatro possa essere anche coltissimo e abbia dei riferimenti alti ma deve essere fruito da chi ha cinque lauree, come da persone più semplici. Lì il teatro vince, ha senso, perché diventa lo specchio per la comunità, non quello per l’elitè. Perché dovrebbe diventarlo ora, quando non lo è mai stato?”
La sua voce è molto vibrante e versatile: è un connubio di diversi timbri vocali. Oltre allo studio sulla voce, come e quando è giunto il desiderio di cantare?
“Per me il suono è sempre stato il modo in cui ho percepito il mondo. Per esempio, con una persona che per me ha una voce respingente non riesco ad entrarci in empatia. Sono una persona che ha una preminenza dell’orecchio rispetto al mondo. Ognuno ha il suo suono e ognuno ha la sua voce, il proprio soffio vitale, elemento unico della persona, come il DNA. Il suono e il timbro vacale sono parti indimenticabili di una persona: come definire l’imprinting, l’aspetto importante dell’essere umano. Ritengo, inoltre, che il suono sia un fattore preponderante nel relazionarmi con le persone e con le cose”.
Quanto per il suo percorso lavorativo e artistico è stata importante la formazione con Luca Ronconi?
“Enormemente. Dal punto di vista stilistico mi ha insegnato delle cose imprescindibili per me: intanto la disciplina. Sono stata formata attraverso un’educazione ferrea, in cui era normale provare dodici ore al giorno; stare un pomeriggio intero su tre battute, per capire il suono, l’interpretazione, l’adesione emotiva, e molto altro. Tutto questo lo si raggiunge con tantissimo studio e allenamento. Il teatro non è un’‘astrazione intelletualistica’ ma è, al contrario, artigianato popolare. Credo molto nella disciplina e nello studio, soprattutto nell’enorme preparazione dell’artista, poiché penso che nessuno sappia più fare niente”.
Confrontiamo per un istante il teatro classico e il teatro off e la qualità dell’offerta: quali le differenze di fondo tra queste due realtà odierne?
“Il teatro elitario, il cosiddetto teatro di rottura, dell’avanguardia e quindi iper-intellettuale, secondo me ha avuto un significato storico alla fine del Novecento, per intenderci negli ultimi trent’anni dello scorso secolo: dal ’68 in poi. Lì ha avuto storicamente una funzione, in quanto tutte le categorie novecentesche sono state messe in qualche modo discussione (rapporto uomo-donna; il ruolo stesso delle donne). Il teatro d’elitè ha avuto il suo significato ma, appunto, in quegli anni. Quello che non si capisce ora è che ci sono i nostalgici del ’68, per cui, secondo me, questo tipo teatro non ha tanto capito il momento sociale che ci troviamo a vivere. Adesso non c’è nulla né da innovare, né da riformare. E’ già stato provato, destrutturato e sperimentato tutto il possibile”.
Secondo lei, quindi, in questo periodo di cosa ha bisogno il teatro e che può fare ai fine di un miglioramento?
“Parlerei piuttosto di ‘RESTAURAZIONE’: nel senso di un teatro popolare alto. Il momento di crisi che sta vivendo il teatro attualmente non dà una risposta ancora alla TRASFORMAZIONE SOCIALE che sta avvenendo. Trovo, inoltre, che la rivoluzione tecnologica abbia modificato le vite, la percezione degli eventi e i modi di comunicare di tutti. Quindi, di conseguenza, il teatro può restituire una dimensione umana della comunità, affinché non sentirsi perduti tra i tanti stimoli, nella frammentazione dei rapporti, nello sfilacciamento delle nostre vite, poiché il teatro può diventare ancora l’‘Agorà’ dove rispecchiare noi stessi, o nelle passioni private o nelle grandi tematiche pubbliche o in entrambe le cose. Un ambiente insomma dove noi possiamo riconoscerci, tutti indistintamente”.
Che consigli sente di dare ai giovani attori/attrici per arrivare in alto, e dunque non adattarsi alla massa, ormai troppo uniforme?
“Ai giovani attori consiglio sempre di lavorare e di studiare tanto, con disciplina e passione ma soprattutto di non arrendersi al cinismo, dunque al livellamento verso il basso, perché la qualità se è onesta e protesa verso il pubblico è sempre premiata, e il pubblico la riconosce”.
Infine, visto che abbiamo menzionato di buon grado la poesia, cosa è per lei la poesia, cosa le dona?
“La poesia è stata un modo di dare un senso ai turbamenti, ai traumi e ai lutti, dunque alle mie prime esperienze adolescenziali per giungere all’età matura: sentivo appunto che la vita era imprevedibile, enorme, terribile. Un modo dunque di dare un nome e delle parole che descrivessero la caducità del mondo, fuggevole e indecifrabile. La poesia mi ha fatto sentire meno sola. È un grande balsamo contro la solitudine”.
Annalisa Civitelli