Nicoletta Capone:
“Raccontare crea identità e senso, là dove serve”
Al suo primo romanzo, la sceneggiatrice–scrittrice napoletana, Nicoletta Capone entra di diritto nel vasto mondo della letteratura italiana.
Grazie al “Corso di Professionalizzazione per Sceneggiatori” organizzato dalla rivista Script in RAI, fu notata da Domenico Matteucci che le chiese di unirsi al gruppo di sceneggiatori della serie “Sei forte, maestro!“, di cui egli era editor.
Da questa esperienza si approccia successivamente ad argomenti basati sulla trascendenza e sulla meditazione, fonti di studi sugli stati di coscienza e sulla e spiritualità, legandoli alla filosofia, ad aspetti religiosi e scientifici.
Grazie a ricerche approfondite in merito alle suddette tematiche, riesce così a sviluppare una storia del tutto particolare ma soprattutto innovativa in forma di libro, appunto.
Timida, riservata ma curiosa, la Capone ha colto di sorpresa le persone vicine a lei: attraverso una scrittura scorrevole e una trama avvincente è riuscita nell’intento di dare vita a qualcosa che di certo può avvicinarci a questioni che negli ultimi tempi subiscono linee evolutive interessanti, coinvolgendo l’intera collettività.
Convinta che sia meglio presentarsi con un prodotto che rappresenti lo scrittore/scrittrice a tutto tondo, ci racconta della sua prima avventura nel mondo della scrittura.
Nicoletta Capone, lei è al suo primo romanzo. Come è nata l’idea de “La radice quadrata dell’uno per cento”?
“‘La radice’, come lo chiamo io, è nato dai miei studi sugli stati di coscienza e sui tentativi spirituali, filosofici, religiosi e scientifici che negli ultimi decenni stanno coinvolgendo, in tutto il mondo, un numero sempre più ampio di persone nel lavorare per migliorare la vita umana con l’uso di energie costruttive e metodi che solo cinquant’anni fa sarebbero stati impossibili da credere”.
Perché la scelta di tale titolo: che vuole esprimere?
“A questo non posso rispondere, altrimenti svelerei il mistero fondamentale del romanzo!”
Si percepisce che all’interno del libro c’è molta ricerca: come ha utilizzato le sue conoscenze, per intrecciare una trama che scorre e non lascia nulla al caso?
“In realtà, prima che nel romanzo, quelle conoscenze sono state utili punti di riferimento nella mia vita e dunque avevo dovuto integrarle e connettere innanzitutto dentro di me, ben prima di scrivere ‘La radice’. Il romanzo le ha solo messe nero su bianco”.
Entrano in ballo dei dati numerici: ci spiega come è arrivata a tali statistiche?
“Giuro che tutto quanto ho riportato nel romanzo, a livello di studi scientifici, è assolutamente vero e verificabile. Nelle note aggiungo le fonti, disponibili a chiunque si sia incuriosito e intenda documentarsi in merito”.
Il testo per alcuni aspetti si presenta elaborato: quali le dinamiche che l’hanno attratta verso quelle investigative?
“Il genere ‘giallo’ mi sembrava il ‘cappottino’ più giusto da mettere alla storia che volevo raccontare: l’investigazione ha reso la trama più dinamica e interessante e intanto mi ha dato la possibilità di trasmettere, in sottofondo, i contenuti che mi interessavano. In fondo, al di là del genere – che sono anche consapevole di aver forzato, in qualche punto – ‘La radice’ non racconta solo l’indagine del Commissario Sansevero sulla morte della figlia, ma soprattutto la storia di Sergio, un uomo che si è perso, un uomo senza più alcuna speranza che, affrontando il dolore anziché sfuggendogli, percorre un cammino difficile ma ritrova in qualche modo la figlia e così, forse, ritrova se stesso”.
E dunque, perché proporre un giallo spirituale: al fine di?
“E chi lo sa. Fare il punto dentro di me, su certi argomenti? Divulgare nozioni che ancora in troppo pochi condividono? Onorare l’opera spesso silenziosa e sconosciuta ai più di appassionati scienziati e pensatori? Forse tutto questo assieme”.
Quanto tempo ha dedicato alla scrittura per poi giungere alla stesura del prodotto finale?
“Per la progettazione, qualche giorno. Per la stesura vera e propria, tre pagine al giorno per tre mesi. Per la revisione, tre giorni”.
Dunque un periodo di concentrazione e intenso: cosa ha imparato da questa esperienza?
“Ho imparato che, quando il desiderio di comunicare è sincero e la consapevolezza di quello che stai facendo è forte, la scrittura viene quasi da sé e sarai comunque felice del risultato. Poi, certo, quello che scrivi può piacere oppure no, ma credo sia sempre meglio proporsi/esporsi con un prodotto che ti rappresenti profondamente anziché con qualcosa studiato a tavolino – cercando di andare incontro al gusto prevalente o alla moda del momento, per esempio – e magari anche formalmente perfetto, ma senza alcuna anima”.
“Il mio stile, oltre che dell’amore verso scrittori quali Calvino e Carver, è sicuramente figlio della mia professione. Sono una sceneggiatrice e credo che si noti sia nella struttura del romanzo, suddiviso quasi per ‘scene’, sia nei dialoghi diretti e nel parsimonioso uso di parti meramente descrittive. Ho iniziato vent’anni fa, partecipando al ‘Corso di Professionalizzazione per Sceneggiatori’ che allora organizzava la rivista Script, presso la RAI. Alla fine del corso, uno dei docenti, Domenico Matteucci, mi chiese di unirmi al gruppo di sceneggiatori della serie “Sei forte, maestro!” che stava curando come editor”.
Secondo lei, i corsi di scrittura oggi giorno sono utili per affrontare, per esempio, un percorso come il suo?
“Se una persona intende fare della scrittura il suo mestiere, direi che un buon corso, gestito da esperti del settore, non può che far bene. A patto poi di ‘dimenticarsi le regole’ e trovare la propria voce personale e originale”.
Qual è l’esigenza, secondo lei, che spinge tutti a scrivere?
“Non ho una risposta universale, ovviamente. Secondo me, scrivere dà l’illusione di mettere ordine, dentro di te e nel mondo. Raccontare crea identità e senso, là dove serve”.
All’interno del libro è inserito qualcosa di auto-biografico?
“Ogni personaggio rappresenta una parte di me: mi ritrovo molto nello scetticismo di Sergio, nell’ironia di Claudio, nella tristezza dolce di Fabrizio, nella speranza di Anna, e forse anche nella vigliaccheria di qualcun altro”.
Ha avuto già modo di presentare il libro in contesti sociali?
“No. Sono molto timida, espormi mi crea qualche imbarazzo. Ma mai dire mai”.
Cosa pensa dei social e della comunicazione odierna?
“Ne uso solo uno (si può dire? Facebook) e, nonostante lo usi davvero poco, è sempre più di quanto vorrei. La socialità virtuale mi interessa solo come luogo di confronto e scambio di idee; in ogni altro caso, o nell’abuso, credo si debba parlare di ‘asocial network’. Io preferisco ancora un bel caffè e due chiacchiere occhi negli occhi”.
Come si definirebbe in poche parole?
“Una scettica dalla mente aperta, un’esploratrice cauta ma speranzosa”.
Considera la poesia come…
“Il linguaggio dell’inesprimibile”.
La scrittura aiuta a …
…dare un senso.
Annalisa Civitelli