Paola Tarantino:
“Gli artisti sono dei rivoluzionari che aprono nuove strade”
Prima al Teatro dei Documenti, poi a Lettere Caffè nel cuore di Roma, mentre il 10 marzo la troveremo al Circolo Arci Metro Core capitolino, che si occupa di musica, teatro e formazione artistica. Paola Tarantino, attrice, autrice e regista, dunque, porta in giro la sua ultima fatica all’interno dell’Urbe, la cui regista è Sara Ercoli: ‘Io, la Creatura Mary Shelley’.
Da sempre dedita all’Universo Femminile, la Tarantino è attratta dalle figure tormentate, tra cui anche la Shelley. L’interprete evidenzia le vicissitudini più salienti della scrittrice inglese ma soprattutto ne risalta l’inquietudine e l’amore per la scrittura, riconoscendo il valore della sua opera più famosa.
“Frankenstein, o il moderno Prometeo”, scritto nel 1818 ma attuale, apre al pensiero innovativo tra mortalità e immortalità dell’uomo, che scaturisce sul tormentato finale della pièce.
L’8 marzo al teatro Agorà, sito in zona Trastevere, sarà presentato un estratto della rappresentazione all’interno dell’evento “Intolleranza zero – Quando la donna è teatro” prodotto da One Love Station di Giampiero Turco e dedicato appunto alle donne.
Molto importante la lotta in cui la Shelley si adoperò per ottenere il suo nome in copertina del suo libro. La sua personalità quindi è da considerarsi combattiva, appassionata e rivoluzionaria, legata a quei sani principi di essere valorizzata e riconosciuta in quanto donna.
Paola Tarantino, da sempre incuriosita dai talenti tormentati, per quale motivo?
“Prima di tutto, grazie per questo spazio dedicato, grazie davvero di cuore. Non è sempre possibile parlare a fondo del proprio percorso e delle fonti, anime, di ispirazioni da cui si attinge, perciò, forse mi ripeterò ma: grazie Annalisa. Ormai mi conosce da un po’ e questa domanda non mi stupisce, tutt’altro, ne sono felice perché mi fa pensare al mio ultimo testo in scena di cui sono anche interprete, con la regia di Sara Ercoli ‘Io, la Creatura – Mary Shelley’, e a ‘Mind the gap’ che ho scritto e diretto ormai qualche anno fa. Mind è uno spettacolo che dalla prima parola sulla carta all’ultimo scroscio di applauso a teatro, ho amato moltissimo. I sei protagonisti sono sei suicidi eccellenti, Mark Rothko, Silvya Plath, Marina Cvetaeva, Sarah Kane, Alfred Jarry, il Funambolo, sono stati, tutt’ora lo sono, dei dolcissimi, inestimabili, certamente impegnativi, compagni di viaggio e di vita. Da loro ho imparato che amare non ha limiti e se ce n’è qualcuno, è necessario spazzarlo via con un verso, una pennellata decisa sulla tela, una passeggiata su un filo a 100 metri d’altezza. Con tutto il coraggio di assumersi la responsabilità delle proprie scelte. E quanto coraggio serve a certe anime per scacciare il tormento il travaglio la solitudine, il conflitto, contenere l’eccitazione, la gioia, l’esaltazione? Quello che ogni tanto sento anche io, quando sto dando voce e inchiostro a personaggi che fino a un minuto prima non esistevano e che un minuto dopo hanno un nome, una personalità, dei desideri, dei sogni. Più seguivo le loro tracce, più comprendevo che quelle vite tormentate erano già parte di me, dovevo solo fermarmi e decidere di accoglierle senza la paura di specchiarmi nei loro occhi incendiati”.
Precedentemente ci ha avvicinati a Sylvia Path, Sarah Kane, al pittore Rothko e ad altre personalità travagliate, ora è la volta della Shelley, da dove parte e come nasce tale esigenza?
“Perché sono esseri umani, artisti che mi hanno dato tanto e tutt’ora mi danno coraggio, sono come degli amici, coinquilini per certi versi e portarli in scena è come fare una festa, invitare un po’ di persone e farli conoscere, farli parlare e incoraggiare le persone a guardare e a guardarsi e divertirsi, ridere delle sfighe e su quanta vita sprechiamo pensando di essere immortali. Si, li ho avvicinati, ho tentato di farlo, ho provato a scrostarli via dai volumi impolverati o dai cimiteri, spinta dal desiderio di conoscerli a fondo. Mi hanno risvegliato a l’esigenza di attingere a quella possibilità, quella libertà, quella forza che hanno dovuto tirare fuori: senza arrendersi mai e senza farsi zittire hanno combattuto contro una società che non li capiva che li voleva eliminare. Gli artisti a cui mi sono ‘avvicinata’, sono tutti dei rivoluzionari, coloro che aprono nuove strade. Certamente, tutti gli artisti sono rivoluzionari, ma ciò che mi ha affascinato di più è determinazione a rendere la loro vita un’opera d’arte e ad arte l’hanno anche conclusa, con un gesto che sconvolge sempre l’ordine del mondo, ma necessario per far si e il valore delle loro opere si imprimesse nelle stelle del cielo per l’eternità. La Shelley non è morta suicida, ma ha conosciuto la morte fin dal primo vagito, perdendo la madre alla nascita e successivamente quattro figli e l’amatissimo marito, il poeta P. B. Shelley. Ma non si è arresa all’evidenza della vita, ha lottato contro tutte le avversità è scrivendo ha vinto. Ha inventato un genere letterario, ha aperto le porte alla ‘visionarietà fantascientifica’, ha dato vita al Mostro usando la sua stessa vita, il suo essere donna, i suoi incubi, il senso di colpa e più di ogni altra cosa, il senso di abbandono: filo rosso di tutta la sua vita”.
Che cosa trasmette ancora la loro poetica attualmente?
“Sono artisti con poetiche diverse, accomunati da un destino simile. Quello che trasmettono ancora oggi è forse l’aspetto predominante di questa società, nonostante poi si faccia comunque il contrario: uscire fuori dal coro, non tradire se stessi, rimanere autentici, credere profondamente e spietatamente nella propria voce e curarla sostenerla, non aspettarsi troppe vittorie, ma allenarsi a non arrendersi mai. A credere in se stessi anche quando tutto sembra dirci ‘Tu no, tu non puoi, tu non ce la farai mai’ e andare avanti fieri, di tutte quelle volte in cui non ci si è fatti schiacciare”.
Lo spettacolo “Io, la creatura Mary Shelley” riserva sorprese graditissime come per esempio l’uso della lingua inglese sia nella recitazione, sia nel canto. Pensa di tradurre l’intero testo per proporlo nei paesi anglosassoni?
“Mi piacerebbe moltissimo e penso che lo farò, sarebbe meraviglioso poter portare ‘Io, la Creatura Mary Shelley’ in Inghilterra o in Scozia, dove Mary ha vissuto gli anni della sua formazione umana e letteraria. Vorrei portarlo anche nelle città in cui si è sviluppato il Frankenstein, come Napoli (la leggenda dice che Victor Frankenstein abbia origini partenopee) o Lucca. Insomma non mettiamo limiti”.
Cosa e quanto le ha insegnato l’autrice di “Frankenstein, o il moderno Prometeo”, e cosa si porta dietro circa la sua visione della vita?
“Sicuramente il suo essere una donna tanto forte e coraggiosa per i suoi tempi. Una donna che fin da bambina ha sempre mostrato una grandissima personalità, intelligenza, sensibilità e per questo allontanata e vista come pericolosa. Ma soprattutto ammiro la sua coerenza, la sua fedeltà ai suoi ideali e ai suoi intenti. La Shelley non si è mai fatta fermare dagli attacchi della vita. E’ stata madre, moglie intellettuale, artista dal libero pensiero, si è battuta per i diritti delle donne seguendo la scia rivoluzionaria di sua madre Mary Wollstonecraft. Essere donne è meraviglioso ed essere artiste donne per me è un valore aggiunto, lasciare andare libera l’immaginazione e l’atto creativo è di per se donna. Far si che si manifesti presto un vero potere collaborativo fra noi donne è lo scopo. Lunga è la strada di una vera collaborazione tra donne, ma piano piano si stanno aprendo spiragli. Gli uomini in questo sono diventati più bravi a furia di essere loro a decidere. Ma le cose stanno cambiando e le donne si stanno unendo e fidando sempre di più le une delle altre”.
Mary Shelley era combattiva e alquanto rivoluzionaria: ha voluto fortemente il suo nome in copertina dopo molte battaglie. Che ha voluto comunicare alle donne con questo gesto?
“Se la Shelley prendesse parola adesso forse direbbe: “Lasciate le impronte, non siate pavide, lasciate segni, piantate semi e fate crescere alberi e non fermatevi ad aspettare di vederli crescere. Continuate a vivere, esplorate, sognate, amate, non vi arrendete”. Questo è lo scopo della vita se c’è uno scopo: lasciare un segno tangibile del nostro passaggio. Tutto il resto (rubando la battuta a Shakespeare) è silenzio”.
Quanto conta per lei la qualità nell’ambiente teatrale?
“Bisogna essere attenti e prendersi cura davvero del patrimonio culturale che non è solo quello classico ma quello che ci passa sotto gli occhi ogni giorno, fatto di grazia e poesia. Questo è ciò che sento. Questo è quello che credo importante e che mi piace portare a teatro. Veniamo dai poeti, dai filosofi, dai commediografi e io li amo: sono i nostri padri e le nostre madri, sono i veggenti, loro vedono prima, hanno una speciale capacità di percepire il mondo, l’innato istinto a vivere intensamente. Tanto”.
Cosa è per lei la poesia?
“Tutto ciò che è Vita. Tutto è poesia”.
Annalisa Civitelli