Riccardo Brunetti:
“Il teatro immersivo è un’esigenza contemporanea”
Abbiamo avuto il privilegio di intervistare il giovane regista Riccardo Brunetti, firma di “La Fleur”, imperdibile spettacolo immersivo in scena al teatro Garbatella di Roma fin al 19 maggio.
Forte di una solida esperienza, Riccardo Brunetti diventa il pioniere italiano di questa affascinante forma di arte performativa che, una volta presentata agli spettatori, diventa soltanto il culmine di un lavoro lunghissimo e meticoloso.
Proprio per questo, però, riesce a stupire e meravigliare tutto il pubblico che si lascia andare a questo esperimento così unico nel suo genere.
“La Fleur” è stato immediatamente prolungato di tre settimane: cosa ha capito della risposta del pubblico e cosa le fa sperare tutto questo?
“Una produzione come la nostra comporta un enorme lavoro: molti mesi per assemblare un’équipe di più di 60 persone. Quando la risposta del pubblico premia tutta questa mole di lavoro, non possiamo che esserne contenti. Dal 2015, la partecipazione alle nostre performance è costantemente cresciuta – sembra che anche il pubblico romano, come quello londinese, cominci ad apprezzare seriamente le esperienze immersive. Speriamo di non rimanere i soli a proporle”.
Il cast consiste di più di trenta attori ognuno dei quali con origini formative diverse, come ha messo insieme questo grande gruppo?
“Con tanta pazienza. Sono generalmente gli attori che si avvicinano a noi perché interessati alla forma immersiva. La tipologia di lavoro richiesta ai performer di un’esperienza immersiva è solo parzialmente sovrapponibile al lavoro che ognuno di loro ha già affrontato nella propria carriera. Ci sono alcune peculiarità di questo tipo di lavoro a cui anche i più esperti devono essere introdotti: una gestione dello spazio diversa, la costruzione e lo sviluppo di relazioni con il pubblico partecipante, la necessità di una sincronia perfetta anche negli spostamenti tra spazi molto lontani tra loro. Generalmente introduciamo i nuovi attori con delle sessioni laboratoriali in cui possono cominciare a praticare alcune di queste particolarità anche grazie alla guida dei veterani di questa forma performativa”.
Qual è invece la sua di formazione in quanto regista?
“Il mio imprinting teatrale proviene dalla mia famiglia, ma, come spesso accade quando ci ritroviamo qualcosa in casa, la mia attenzione si è rivolta altrove: musica e arte grafica. Sono tornato al teatro solo molto tardi, verso i vent’anni, ma avevo tutto il bagaglio che mi aveva lasciato il lavoro della mia famiglia materna. Non ho mai fatto una scuola propriamente detta ma ho seguito per anni ex-collaboratori di Jerzy Grotowski. Personalmente, reputo il teatro immersivo la risposta del XXI secolo ad alcune domande che Grotowski poneva riguardo il teatro ‘tout court’”.
Quale è il significato del teatro immersivo per lei?
“A mio avviso il teatro immersivo risponde ad alcune esigenze contemporanee: la fruizione attiva che richiede sfida il pubblico in maniera più simile a come fa un videogioco, rispetto a un libro tradizionale o a un video. Il teatro immersivo ha infatti una dimensione partecipativa, ludica, che mette decisamente lo spettatore al centro del processo. Forse questa attenzione allo spettatore è la risposta di questo secolo a tutta l’attenzione che ha ricevuto l’attore nel ‘900: bisognava ribilanciare dedicandosi all’altra metà della diade che forma il teatro. L’attore continua ad essere fondamentale, in quanto l’elemento umano è quello che permette di ‘immergersi’ più facilmente, ma anche gli altri elementi della scrittura scenica sono preziosissimi per costruire relazione e contesto. Nel teatro immersivo, ad esempio, l’arte installativa trova una sua espressione assolutamente unica”.
Qual è la cosa più difficile per lei, in qualità di regista, nel coordinare uno spettacolo così complesso?
“Certamente mantenere una qualità di lavoro alta in tutta l’équipe. Spesso chi lavora nel teatro è abituato a focalizzare la sua attenzione solamente sulla sfera che gli compete e a ignorare gli altri aspetti che compongono una performance. Nel teatro immersivo l’attenzione deve essere orientata a 360 gradi: gli elementi sono talmente legati uno all’altro che il lavoro di uno è realmente e letteralmente legato al lavoro degli altri. L’altra grande sfida è comune ad altri lavori performativi: mantenere ciò che accade vivo malgrado la ripetizione: è necessario un costante rinnovo dell’attenzione da parte di tutti e ottenerlo non è semplice”.
A cosa vi siete ispirati lei e i coautori, Francesco Formaggi e Alessandro D’Ambrosi, per raccontare la storia della famiglia Andolini?
“A tutta la tradizione noir e dedicata alla criminalità nella letteratura, nel cinema e nei prodotti televisivi: spesso parlando di ‘La Fleur’ abbiamo detto che è il nostro omaggio ad autori come Puzo, Rosi, Scorsese, Tarantino, Besson. Ma anche alle serie tv – siamo tutti grandi fan di serie come ‘Breaking Bad’ (e di Vince Gilligan in generale), ‘La casa di carta’, ‘Narcos’. ‘La Fleur’ è ispirato a molte di queste opere, citandole esplicitamente in molte occasioni: le prove allo specchio di ‘Taxi Driver’, il Twist di ‘Pulp Fiction’, l’abbigliamento delle ‘Iene’, un personaggio come Margaretha, a metà tra Beatrix di ‘Kill Bill’ e ‘Nikita’”.
L’anno scorso ha portato in scena uno spettacolo analogo, un’altra esperienza di teatro immersivo, “Augenblick”: che paragone può fare fra questi due spettacoli?
“Sono estremamente diversi: ‘Augenblick’ aveva un’atmosfera misterica, esoterica, si svolgeva nel 1941 (con l’intero Teatro Studio Uno di Torpignattara a Roma, trasformato in una grande casa con mobili e oggettistica dell’epoca). Era un’esperienza più densa, dove ogni parola e ogni azione nascondeva significati reconditi e ramificazioni con molti riferimenti storici. ‘La Fleur’ ha una trama più ‘pop’, più accessibile, più contemporanea. Ma questa è la bellezza delle esperienze immersive: il mondo che viene creato ogni volta è talmente ricco e c’è talmente tanto da scoprire, che ognuno può trovare accontentate le proprie preferenze e i propri gusti. A volte sentiamo gli spettatori descrivere le proprie esperienze ai loro amici e sembra che abbiano visto due spettacoli completamente diversi. Questo ovviamente accade in ogni esperienza artistica: l’occhio che guarda contribuisce in maniera fondamentale alla creazione dell’opera”.
A cosa si dedicherà finita l’esperienza di “La Fleur”?
“Alla prossima esperienza immersiva. Non posso rivelare molto, ma sarà un lavoro nuovo. Siamo anche all’opera su un nuovo libro sul teatro immersivo: il nostro testo del 2017 continua ad essere l’unica pubblicazione in italiano riguardo questa nuova forma performativa”.
Quale teatro le piace vedere?
“Alcuni lavori mi hanno segnato profondamente: ‘Action’ del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards fu uno dei primi. Certamente ‘The Drowned Man’ dei Punchdrunk è stato uno degli ultimi spettacoli che mi hanno segnato così profondamente: fu lo studio di quel lavoro che ci convinse a tentare di introdurre in Italia il teatro immersivo”.
Gabriele Amoroso