Roberto Guardi: “Comporre musica pensando che non ci sia mai nessuno ad ascoltare”
Roberto Guardi, in arte il Befolko, nasce a Napoli nel ’92. Il suo percorso musicale lo guida verso le percussioni sin dalla prima infanzia per approdare poi alla chitarra. Compone le sue prime canzoni dal 2010 e scopre il folk anni ’70 attraverso Jim Croce, Don McLean, Cat Stevens, Gordon Lightfoot e Simon & Garfunkel, per citarne alcuni.
Coniuga a queste sonorità inglesi e nord-americane il dialetto partenopeo grazie a un linguaggio semplice, che evidenzia un po’ le esperienze di tutti i giorni. Nel 2017 esce il suo primo album, “Isola Metropoli”, intriso di ritmi morbidi, nostalgici e di poesia.
Il Befolko ci racconta le sue vicende e come è nato l’interesse per la musica: un’artista che va controtendenza e non segue i classici canoni del mercato attuale, ancora ancorato alle tradizioni e all’andare “controtempo”.
Stasera suonerà al B–Folk di Roma: un’occasione per incontrare l’artista e prendere confidenza con i suoi testi e le sue melodie.
Roberto Guardi, ci racconta come nasce la tua passione per la musica?
“La mia passione per la musica nasce per un caso fortuito. A cinque anni andai in vacanza con i miei a Cefalù e fui attirato dal suono di un bonghetto che alcuni ragazzi stavano suonando sulla spiaggia; non avevo mai suonato prima, volli provare e poi tutto il resto è venuto da sé a poco a poco: ho trascorso tutte le scuole elementari e medie a suonare le percussioni, a diciassette anni ho poi scoperto la chitarra. In famiglia nessuno è musicista ma tutti sono oppure erano fruitori di musica. Ascoltavo Pino Daniele, Eduardo De Crescenzo, Antonello Venditti, a casa dei nonni i vinili di Renato Carosone. Ho poi avuto negli anni altri mentori, altri ‘spacciatori’ di note. Anche aver ascoltato musica fin da piccolissimo ha giovato non poco!”
In che modo riesce a conciliare l’unione tra folk e dialetto napoletano?
“Non saprei precisamente dire come ciò avvenga, è una cosa abbastanza naturale e a ritroso non saprei ricostruire esattamente il processo. I diciassette anni sono stati un punto cruciale e sono coincisi con la scoperta di Cat Stevens, Simon & Garfunkel e soprattutto di Jim Croce. Quel tipo di sound così dolce e malinconico mi ha totalmente assorbito e plasmato, mi sentivo un’anima particolarmente affine a quel tipo di sensibilità. Non parlavo napoletano in casa ma in altri contesti si, nel mio quartiere è senza dubbio la lingua più utilizzata. Poi ascoltavo musica in napoletano: mi ha sempre affascinato la sua forza, il suo colorito, la sua efficacia comunicativa. Anche questa è stata un’altra inconsapevole scelta di cuore!”
Da qui nasce il suo nome d’arte che racchiude in sé “essere folk” ovvero seguire il proprio sentire, la propria anima?
“Si, assolutamente! Non so cosa significhi precisamente ‘essere folk’ e se vi sia un modo universale e standard di ‘essere folk’. In origine il termine significava semplicemente ‘popolo’, quindi preservazione e cura delle radici, delle tradizioni più profonde e viscerali di un popolo. In me questo primo aspetto è meno presente anche se c’è nelle mie canzoni molto di Napoli e di certi suoi comportamenti ed atteggiamenti; l’aspetto a cui accennava è invece preponderante: per me il folk è semplicità e sincerità, rimozione di ogni velo, profonda introspezione, osservazione delle più piccole cose che ci circondano. E, se vogliamo, anche una vita non troppo agiata che permetta di separare l’essenziale dal superfluo e che consenta per quanto possibile di restare primordiali e quasi atemporali. Mi propongo in un certo senso una ricerca del minimo comune denominatore umano, soprattutto dal punto di vista spirituale, cercando di rintracciare il seme di ogni esperienza e sentimento”.
Perché la scelta di seguire la tradizione, andando quindi contro tendenza con i tempi attuali?
“Seguire la tradizione non è una vera e propria scelta, è un po’ la conseguenza naturale ed inconscia di quanto dicevo poco fa e lo stesso può dirsi per l’andare ‘controtempo’. Il mondo sta cambiando sempre più velocemente e provare a trattenere qualcosa è l’unico modo per difendersi, conservarsi, non lasciarsi travolgere e provare a non smarrire un certo bagaglio umano che potrebbe essere vinto dallo scorrere del tempo. Credo sia così da sempre, l’uomo per sua natura conserva ed innova allo stesso tempo. Non ho mai nascosto una certa difficoltà nonché spaesamento nel vivere questi tempi, ci sono troppe cose che non capisco e che non mi convincono. Nel mio piccolo vado in cerca anch’io delle tradizioni che mi incuriosiscono e che vorrei preservare; inevitabilmente vivo in quest’epoca e qualcosa di essa fa parte anche di me ma poi vado cercando nel passato qualcosa che mi rappresenti più a fondo. Se la mia musica suona un po’ vecchia forse è proprio perché non rispecchia esattamente l’epoca in cui è stata realizzata”.
La sua idea di musica contemporanea
“Non mi piace quasi per nulla la musica contemporanea, almeno se parliamo di Italia e di correnti ‘mainstream’. Trovo tutto un po’ plastificato, si ricerca un po’ troppo il sensazionalismo ma la sostanza latita alquanto. Mi colpiscono ben poche cose. Il panorama underground è senza dubbio più interessante e sperimentale, l’unico che merita attenzione e che meriterebbe più spazio. Diverso il discorso per la musica straniera, ma è così da sempre. Se poi mi si chiede cosa intenda per una musica contemporanea, al passo coi tempi, mi verrebbe da dire che la musica non deve necessariamente andare da qualche parte né raggiungere mete. Sperimentare e cercare di costruire il nuovo partendo dal già noto è giustissimo ma le emozioni non invecchiano: si può fare della bellissima musica suonando ugualmente nuovissimi o vecchissimi. La prima cosa fondamentale è non pensare al successo, questa ossessione rischia di compromettere tutto in partenza. Bisognerebbe comporre musica pensando che non ci sia mai nessuno ad ascoltare”.
L’11 maggio sarà ospite al b-Folk di Roma. Che cosa proporrà al pubblico capitolino?
“‘Il Befolko’ al B-Folk è una cosa fantastica già linguisticamente. Torno con tanto piacere in un posto che mi ha già ospitato lo scorso ottobre e in cui sono stato particolarmente bene! Proporrò sicuramente qualche canzone dal mio primo album ‘Isola Metropoli’, con cui sto avendo la fortuna di girare abbastanza, e qualcosa che andrà a far parte del prossimo disco a cui sto lavorando attualmente. E poi, forse, qualche sorpresa”.
Perché venire al suo concerto?
“Perché sono oggettivamente un figo, perché mi piace tantissimo vivere il dopo-concerto e conoscere i miei spettatori, perché racconterò tanti fatti miei e perché le persone amano sapere i fatti degli altri! Tornando seri: credo che la mia proposta musicale possa essere un qualcosa di atipico per Roma come lo è del resto per Napoli, il mio napoletano è del tutto comprensibile, mi soffermo a descrivere tante cose prima di eseguire i brani e cerco sempre di trasportare gli ascoltatori in un viaggio, geografico, linguistico e spirituale. Napoli e Roma sono le due città maggiori del centro-sud, da tantissimi punti di vista, credo possano dare molto l’una all’altra e che questo meeting ‘s’ha da fare!’”
Annalisa Civitelli