Sabrina Dattrino:
“‘Su il sipario’ celebra la bellezza intrinseca del mondo dell’arte”
Sabrina Dattrino, grazie all’influenza di suo padre, sin dall’infanzia si è sentita attratta dal mondo della fotografia. Ha decido così di conoscere il mondo da dietro un obiettivo e in compagnia della sua macchina fotografica ha visitato molti paesi, per abbracciarne le diverse culture.
I suoi scatti sono la testimonianza dei numerosi viaggi intrapresi: spaziano e catturano espressioni, persone, luoghi, vita, colori e non, raccontando usi e costumi lontani dalla cultura occidentale.
La Dattrino, inoltre, dà rilevanza ai suoi progetti umanitari che toccano varie località del mondo laddove il volontariato incontra e aiuta le popolazioni in difficoltà, dando voce, per esempio, sia alle vittime di disastri naturali sia ai rifugiati di Calais in Francia.
Sabrina è una persona attiva e non si è fermata neanche in tempo di pandemia. Attualmente è è concentrata sul suo progetto fotografico, ‘Su il sipario’, trasformando il suo linguaggio in speranza, in qualcosa che dà libera espressione al teatro. L’intento è infatti quello di “mostrare e ricordare la bellezza di tutte le categorie artistiche” avvalendosi delle istantanee scattate su alcuni palcoscenici romani.
‘Su il sipario’, infatti, è proprio la voce degli artisti, delle attrici e degli attori, i quali hanno risposto allo stimolo della Dattrino. L’idea intende appunto esprimere, grazie alle immagini, sia le conseguenze negative per la società privata della cultura sia far riflettere sul silenzio e sulla perdita – temporanea – dell’arte teatrale e non solo.
Sabrina Dattrino, come è nata la passione per la fotografia e in che modo è diventata un mestiere?
“Il mio primo approccio alla fotografia risale alla mia infanzia. Mi ci sono avvicinata grazie all’enorme passione di mio padre. Da che ho ricordi, mio padre ha sempre amato fotografare, e quell’entusiasmo, assieme alla sua Fuji, è stato tramandato a me! La fotografia si è poi trasformata in lavoro, ma molto tardi nella mia vita: in uno studio fotografico a Sydney prima e successivamente in ambito umanitario. In precedenza, quest’arte l’ho sempre vissuta come una passione, parallela ad altri lavori”.
Le sue istantanee sono tracce dei suoi viaggi ma imprimono anche forme di arte differenti tra loro. Quanto è importante l’arte per lei e quanto è essenziale per vivere?
“L’arte e i viaggi son ciò che mi hanno fatta crescere nella persona che sono oggi. Sono due tasselli fondamentali della mia esistenza. La danza, la musica, il teatro, la letteratura, ma anche l’amore per la pittura, la scultura, l’architettura. L’arte è ciò che nutre le nostre menti e mi è impossibile immaginare una vita senza. Ovunque ci giriamo, siamo circondati da arte. In un modo o nell’altro siamo tutti artisti e artigiani, creatori di contenuti e oggetti. Poeti e sognatori. La vita stessa è un’opera d’arte e ne siamo tutti parte”.
Dai suoi scatti emerge un’evidente ricerca della luce: quale valenza le dà?
“La fotografia, così come ogni altra forma d’arte, e la vita in generale, ci mette di fronte a un’infinita possibilità di scelte, a livello di spettro di azioni e di esplorazione. Le mie foto non sono sempre state così: quando ero molto giovane la scelta dei soggetti, delle tecniche di scatto e dell’editing, era molto differente. Più orientata verso l’oscurità diciamo. Credo sia fondamentale essere a proprio agio nell’esplorare ogni lato della vita, per poi decidere su che versante indirizzare le proprie energie e interessi. Credo anche ci debba essere un equilibrio e si debba essere in grado di passare senza problemi, dal buio alla luce, ascoltando le proprie necessità e spinte/curiosità interiori. Nel crescere ho imparato a intravedere la luce, anche solo uno spiraglio, in ogni situazione, quando e dove essa non sembra possibile esserci. Il mio personale scopo fotografico è la ricerca della bellezza, in tutte le sue forme e sfumature, sia essa esibita in piena luce o in penombra”.
Le sue fotografie di solito sono scattate all’aperto e con luce naturale. Tuttavia, con il suo progetto “Su il sipario” c’è stato un mutamento rispetto alla sua abituale tecnica fotografica. Ha deciso di lasciare la sua zona di comfort e osare con tecniche molto diverse da quelle abituali: quali difficoltà ha riscontrato?
“È vero, generalmente prediligo scattare con luce naturale, e se devo essere onesta le vere sfide sono lì! Usare flash da studio dà la possibilità di ricreare artificialmente ciò che la natura offre, ma con molta più precisione, controllo e possibilità di sperimentare. Ai tempi dell’università, in parallelo a psicologia, ho anche studiato in un’accademia di fotografia a Torino, quindi le tecniche necessarie per la fotografia in studio già le conoscevo. Ho inoltre seguito workshop di fotografia e corsi online per rimanere sempre aggiornata e approfondire le conoscenze. Il fatto di avere sempre prediletto la luce naturale ai flash è in parte legato al contesto in cui ho fotografato negli ultimi anni, all’estero e in viaggio, e in parte legato al fatto che il mondo esterno allo studio fotografico ha un fascino incredibile senza bisogno di aiuti artificiali!”
Ci racconta come si sviluppa “Su il sipario” dall’idea alla pratica?
“La scintilla che ha dato vita a questa idea è stata una frase udita in televisione di un politico che affermava che ‘i teatri possono anche rimanere chiusi perché non fondamentali’. Quella frase, arrivata al termine di un anno decisamente intenso, ha innescato in me una serie di pensieri che mi hanno portato all’idea finale. Da quel momento in poi si è sviluppato tutto in modo piuttosto rapido. Avendo vissuto all’estero per molti anni, devo ringraziare mio fratello per l’aiuto fondamentale. Stefano, attore e performer che vive e lavora a Roma da molti anni, ha una solida rete di contatti che ci ha permesso di muoverci in parallelo, presentando il mio progetto e background artistico: lui contattando gli artisti mentre io i direttori artistici dei teatri. L’entusiasmo ricevuto in risposta è stato molto alto e questo ha facilitato di molto le tempistiche e la realizzazione di ‘Su il sipario’”.
Quale tecnica e che tipo di attrezzatura ha usato per il progetto?
“Per gli scatti frontali, ho usato Canon 5D Mark IV, con lente Canon 24–70mm, mano libera e due flash da studio. Mentre per gli scatti con ripresa da dietro e vista sugli spalti, stesso corpo macchina e lente Canon 17-40mm, con cavalletto e tempo d’esposizione lungo”.
“Su il sipario” si concentra su alcuni scatti dedicati ad artisti e attori/attrici: attraverso le sue immagini cosa vuole comunicare al pubblico?
“Lo scopo principale di questo progetto è quello di sensibilizzare il pubblico riguardo la necessità di riaprire i luoghi d’arte, in quanto, artisti e spettatori son fondamentali gli uni agli altri per la sopravvivenza. ‘Su il sipario’ vuole mostrare e ricordare la bellezza di tutte le categorie artistiche, ma soprattutto rimarcare il fatto che per migliaia di persone, oltre che di passione, si tratta di lavoro, e l’esigenza di ricominciare è molto alta”.
Il silenzio delle discipline artistiche è percettibile: secondo lei come avrebbe dovuto comportarsi chi ci governa di fronte alla pandemia e a cosa avrebbe dovuto dare priorità?
“La priorità, come sempre, va data indubbiamente al cittadino. Alla sua sicurezza e benessere. Questo include mettere in moto un sistema che nel mantenerci al sicuro, non ci danneggi più di quanto il fattore esterno/causa primaria non possa fare. Comprendo molto bene che stiamo affrontando una situazione inusuale per questo specifico periodo storico, ma dato che la storia è ciclica, l’ignoranza selettiva è quel che porta al venir sopraffatti in determinate situazioni. I mezzi per affrontar rapidamente e diversamente la pandemia c’erano, e così come altri paesi hanno fatto, avremmo potuto farlo anche noi. Questa mutilazione selettiva di categorie lavorative è quello che sta danneggiandoci più della causa primaria, il virus. Perché gli effetti collaterali delle decisioni politiche prese rischiano di creare danni economici e psicologici enormi”.
Non pensa che il virus abbia spento l’anima di tutti, non solo quella dei lavoratori dello spettacolo?
“Credo che ci stia mettendo duramente alla prova, quello sì. Ma credo anche ci sia un’incredibile voglia di ricominciare, lasciandosi gli eventi dell’ultimo anno alle spalle. Indubbiamente c’è molta frustrazione diffusa, poca fiducia nel governo e poca fiducia che le cose possano tornare alla normalità in breve tempo. Ma credo fermamente nel concetto di resilienza. Gli esseri umani sono in grado di tirare fuori energie incredibili quando messi di fronte a sfide molto dure. Siamo estremamente adattabili e flessibili, prima di ‘spezzarci’ gli animi ci vuole molto. E da ottimista, voglio pensare che questa situazione non farà che fomentare il fuoco delle nostre passioni personali fino al momento che potremo rimetterle in pratica”.
Secondo il suo parere, come possiamo riemergere dalla circostanza che stiamo cercando di affrontare?
“Secondo il mio punto di vista ci sono due modalità: la prima, tenendo a mente che ogni cosa nella vita è temporanea e passeggera, possiamo focalizzarci sul presente, cercando di viverlo al meglio nei limiti imposti e prendendoci cura di noi stessi e del nucleo di persone a noi vicine, con piccole cose, quelle che abbiamo spesso ignorato nella frenesia delle nostre vite precedenti alla pandemia, nella speranza che presto si possa tornare a reintrodurre nella nostra quotidianità tutto ciò che ci è stato tolto. La seconda, con la possibilità di invertire la rotta e prendere decisioni più in linea con le necessità del cittadino, è realizzabile. È stato infatti dimostrato che riaprire i luoghi d’arte con le dovute misure di sicurezza non ha aumentato il numero dei contagi. Il problema non risiede nei teatri, nei cinema, nelle palestre, e così via. La probabilità di contagiarsi è pari se non inferiore a ogni altro luogo, quale possa essere un supermercato, un centro commerciale o una qualunque altra attività. Non è di certo lasciando migliaia di persone senza lavoro e distruggendo interi settori lavorativi che si risolve il problema”.
Cosa si aspetta dal “dopo pandemia”?
“Onestamente non lo so e non voglio farne il focus dei miei pensieri. Preferisco lasciare il ‘dopo’ a quando arriverà e concentrarmi sul cercare di trarre il meglio dal mio presente”.
La sensazione che le dà il semplice suono del “click”?
“La sensazione che ho quando fotografo non è tanto legata al suono del ‘click’ quanto al processo mentale che entra in azione quando ho la macchina fotografica in mano. È una sorta di rallentamento temporale e completa immersione nella scena che poi sì, culmina con il ‘click’, il congelamento di un attimo di realtà ed emozione per l’eternità”.
Quali fotografi l’hanno maggiormente inspirata?
“Indubbiamente Steve McCurry, Sebastiao Salgado, Jimmy Nelson, viaggiatori, esploratori, e incredibili fotografi. Ma anche personaggi che nascono come atleti e son diventati fotografi in un secondo momento. Scalatori, esploratori, trail runner. Personaggi che hanno vissuto o che tuttora vivono, le loro vite ai limiti. Alcuni esempi sono Walter Bonatti, Jimmy Chin, Corey Rich. Ma anche fotografi che han dedicato le loro vite ai diritti umani, come Lynsey Addario o Tim Hetherington. La lista può continuare”.
Qual è stata la sua sfida fotografica più grande?
“Ce ne sono state due, che forse metterei allo stesso livello perché egualmente intense e molto simili. Sono arrivate a un anno di distanza l’una dall’altra ed entrambe connesse a due progetti legati ai diritti umani. La prima in Guatemala, lavorando a stretto contatto con donne che hanno subito abusi, la seconda in Francia, lavorando con rifugiati a Calais. In entrambi i casi la sfida più grande è stata documentare quelle realtà cercando di mantenere il più alto rispetto possibile del loro dolore e della loro situazione. Il non mettere le mie motivazioni nel voler mostrare ed esporre quelle realtà davanti alle loro necessità di rimanere in ombra. Trovare dei compromessi artistici che permettessero di sensibilizzare gli osservatori senza invadere e violare l’intimità delle vite dei soggetti. Entrambi i progetti si possono trovare sul mio sito”.
Infine, “Su il sipario”, rivolgendosi al teatro, è un invito di speranza a rivivere l’apertura del sipario con emozione, a riconciliarci con i variegati mondi che il teatro offre e alla magia che ne scaturisce?
“Assolutamente sì, è un progetto che celebra la bellezza intrinseca del mondo dell’arte. Vuole ricordare quanto lontano si possa viaggiare e sognare pur stando seduti su delle poltroncine. E quanto tutto questo sia fondamentale nella nostra vita per mantenere un equilibrio psicofisico necessario alla salute”.
Agnese De Luca