Valerio Di Benedetto: “L’arte fine a se stessa è sterile, non è itinerante. Se invece c’è una missione rompe i confini”
All’interno del locale dove ha esposto le sue opere, Il Margutta Vegetarian Fodd & Art sito in Via Margutta, nelle immediate vicinanze di Piazza del Popolo a Roma, abbiamo incontrato il poliedrico artista.
La mostra allestista dal titolo ‘Indaco, in bilico tra colore e poesia’ (dal 27 settembre al 3 dicembre), dal forte richiamo Pop Art, è un excursus denso di colore e di originalità, in cui i versi danzanti firmati “Umanamente in bilico” giocano sulle tele metalliche.
Valerio Di Benedetto, infatti, connette il suo linguaggio espressivo alla strada e dunque alla portata di tutti. Dipinge le serrande dei negozi, per divulgare un movimento che abbracci i passanti: il “Poetry Street Art”, con l’intento di avvicinare ciascuno di noi alla poesia e non solo.
Dall’animo romantico riesce a catturare la curiosità di ciascuno grazie alla semplicità, alla cura e alla dedizione che impiega nei suoi quadri lucenti, talmente innovativi che anche averli appesi alle pareti di casa propria risulterebbe piacevole.
La sua missione è incoraggiare le persone a trovare la loro chiave e la loro strada e, grazie a un detto buddista che recita di “trasformare il veleno in medicina“, pensa che se ce l’ha fatta lui, ce la può fare chiunque.
Valerio, da attore a pittore, a scrittore di poesie. Come vivi nei panni di una persona poliedrica?
“Vivo serenamente. Scherzando dico sempre che ho la Partita Iva e in qualche modo devo fare. Rispondendo invece in modo più serio, in realtà cerco di canalizzare quello che sento e ciò che vivo in diverse forme d’arte. È uscita questa cosa inaspettata della poesia, della mostra e della ‘Street Poetry’ ma ho sempre meno tempo per me stesso. Infatti o sono in scena in un teatro canonico oppure in strada con la mia compagnia di teatro itinerante, o mi trovate a dipingere le serrande e le miniature per le mostre o per una commissione privata”.
Come è nato il progetto dal colore indaco?
“Indaco è un’ideologia. È un’idea a cui sono arrivato per, appunto, la pianificazione delle serrande e delle mini serrande, che si chiama ‘Umanamente in bilico’, la mia firma quando scrivo le poesie”.
Che intendi con “Umanamente in bilico”?
“‘Umanamente in bilico’ è una condizione dell’essere. Questo totale pendolo tra vittoria, sconfitta, caduta e alzata: siamo noi, in bilico”.
Rispecchia quindi i tempi di oggi?
“Si. Rispecchia sia l’attualità, sia il vissuto, credo, di chiunque: non conosco una persona che, per quanto stabile, non provi delle emozioni che lo portino su una giostra o in altri luoghi. ‘Umanamente in bilico’ è questo. Peraltro ho cercato un editore, l’avevo individuato ma ancora non aveva risposto, e così ho pensato che le serrande dei negozi potessero essere delle fantastiche pagine bianche su cui scrivere le liriche. Inoltre mi sono anche detto che era un progetto che mi incuriosiva e mi interessava, e che avrei voluto avere personalmente all’interno delle mura di casa, staccandolo dunque dalla strada e portandolo in altri posti. Ho pensato di conseguenza a questi quadri fatti dalle lamiere delle serrande, che hanno varie forme appunto, in base anche alla lunghezza delle poesie scritte su”.
In che modo sei giunto ad esporre i tuoi quadri?
“Nel modo in cui ho sentito l’esigenza di farmi conoscere e di portare l’arte di strada in ambienti più canonici, e quindi anche ‘urlare’ rispetto un qualcosa, creando di conseguenza un vero e proprio ‘strappo’ agli stereotipi”.
Quale tecnica pittorica adotti?
“Inizialmente utilizzavo il pennello e gli smalti ad acqua. Ultimamente, per uniformità del colore e per velocità di realizzazione impiego le bombolette, impiegando anche degli smalti acrilici per la scrittura”.
Cosa ti spinge a coniugare la pittura alla poesia?
“Hanno definito un contrasto interessante il colore che utilizzo e le combinazioni che richiamano spesso la Pop Art. Mi baso quindi su una palette che evoca Basquiat, Warhol, Keith Haring, per coniugare parole, concetti ed immagini malinconiche, e creare pertanto una commistione che emozioni e in qualche modo colpisca, coinvolga”.
L’esigenza per te primaria nel divulgare l’arte in versi come nasce e perché senti che bisogna rimandarla alla gente attraverso la “Street Poetry”?
“Nasce perché avevo l’urgenza di esprimere delle cose e trasformare la sofferenza in qualcosa di pulito e utile, utile anche agli altri. Un concetto buddista dice di ‘trasformare il veleno in medicina’: questo mio dolore mi ha portato a incanalare sensazioni, emozioni, immagini in poesia. La missione per me è incoraggiare le persone a trovare la loro chiave, la loro strada. Se ce l’ho fatta a trasformare il veleno in medicina, ce la può fare chiunque”.
E’ un augurio?
“È un invito vero e proprio ad assumersi le responsabilità delle proprie capacità, in quanto spesso si scappa da esse”.
Ciò che fai può essere dunque considerato un linguaggio itinerante? Sia per le serrande dipinte e scritte, sia con il teatro di strada?
“Siamo tutti un po’ itineranti. Ora ci stupiamo dei migranti che arrivano da paesi lontani, mentre il fenomeno esiste dall’era primordiale: ci siamo sempre spostati. Il termine itinerante mi appartiene, da attore e da poeta di strada. Non prescinde da me, lo porto sempre dietro. È anche un modo per conoscere e incontrarsi. Se non fossi stato in certi posti non avrei vissuto determinate esperienze e non mi sarei imbattuto in tanta gente”.
Non saresti arrivato a “Indaco”?
“Non sarei neanche io”.
I tuoi punti di riferimento nell’arte e nella poesia
“Per quanto riguarda la poesia prediligo Michele Mari, il quale ha concepito “100 poesie d’amore a Ladyhawke“, che ritengo essere un capolavoro assoluto. Nell’arte in generale prediligo Caravaggio e quello che è stato Keith Haring, inteso come movimento, ossia basandosi sull’utilizzo dell’arte a sfondo sociale per rompere delle barriere e arrivare da un’altra parte. L’arte fine a se stessa è sterile, non è itinerante. Se invece c’è una missione rompe i confini”.
Dunque desideri stimolare le nostre menti e quelle di chi viene a vedere le tue opere?
“Si ma non voglio mettermi su un pulpito per dire niente. Ti do un messaggio e tu puoi coglierlo o ne puoi vedere un altro. L’importante è che non ti lasci indifferente, anche se ciò che vedi non ti appartiene. Già questo provoca una sensazione”.
L’arte per te è una forma di stimolo?
“È una forma di divulgazione. È una missione e come tale è uno stimolo in ogni direzione. Non è mai a senso unico. È un donare e un ritorno reciproco e costante”.
Tu doni qualcosa e noi la riceviamo?
“Esatto”.
Annalisa Civitelli