Alessandro De Feo: “Il concetto di straniamento non risulta mai completamente chiarito”
“Non credo che un testo sia coinvolgente solo se reso attuale. Secondo me la pretesa
di voler agganciare un lavoro ad un discorso morale, filosofico o attualizzante a volte
è superflua” – cit.
Diplomato all’Accademia Internazionale d’Arte Drammatica del Teatro Quirino a Roma, da attore professionista a cofondatore della Compagnia Cavalierimascherati, giovani teatranti residenti nella capitale provenienti da differenti formazioni, ma soprattutto esperto ammiratore del Teatro D’Autore, Alessandro De Feo oggi è regista dell’opera ‘Nella giungla delle città’, composta da Bertolt Brecht tra il 1921 e il 1923 e rappresentata per la prima volta al Prinzregemtentheater di Monaco nel 1923, che sarà in scena dal 15 al 18 novembre al Teatro Trastevere di Roma.
“Le scuole di teatro, indipendentemente da metodi e autori trattati, a mio avviso dovrebbero tenere lontani gli allievi dalle illusioni ed aiutarli a trovare la propria strada come artisti e persone” – cit.
Artista versatile e completo, vanta la partecipazione a stages con Gigi Proietti, Krysztof Gedroyc, TeatrInGestazione ed Antonio Rezza, ed è stato inoltre lui stesso attore di un altro famosissimo testo di Brecht: “Un uomo è un uomo”, vincitore del premio Attilio Corsini 2017 al Teatro Vittoria in zona Testaccio a Roma, per la regia di Lorenzo De Liberato, in cui interpretava il ruolo protagonista di Galy Gay.
Un sodalizio quindi quello con l’autore tedesco che ha origine dalla sua formazione, attraverso gli stages di drammaturgia con Giancarlo Sammartano, e successivamente di commedia dell’arte con Carlo Boso, con cui mette in scena proprio l’“Opera da tre soldi”. Ultimamente ha preso parte al corto cinematografico pluripremiato ‘Sachertorte’, di Amelia di Corso e Leopoldo Medugno, finalista al Festival Scintille 2016 presso Milano e Asti e vincitore del bando LazioCreativo 2018.
Alessandro De Feo: partiamo dal principio. Quando è iniziato il suo percorso teatrale / lavorativo e soprattutto perché fare Teatro, oggi?
“È iniziato dai banchi di scuola, alla fine del liceo. Credo ci sia chi lo faccia per necessità di comunicare o per spirito creativo, spesso per mero narcisismo. Ogni motivo è lecito e non esprimo giudizi a riguardo. Di certo è difficile che qualcuno lo faccia per un preciso tornaconto pratico, data la difficoltà enorme di inserirsi stabilmente nel mercato del lavoro teatrale e al tempo stesso il continuo aumento di persone che vorrebbero farlo. Potrei dire secondo me ‘perché si dovrebbe’ fare, citando un articolo di Attilio Scarpellini: – per permettere agli artisti e ai cittadini di entrare in relazione e di farsi ‘comunità’: una comunità virtuosa che, coi mezzi dell’arte teatrale, renda i suoi componenti uomini e cittadini migliori –”.
È attualmente coinvolto in progetti che la vedono protagonista sia come attore, sia come regista: il Novecento si apre con una nuova centralità dell’attore, per cui il teatro della parola si trasforma in teatro dell’azione fisica e dell’emozione interpretativa (Konstantin Stanislavskij, Mejerchol, ecc). Ma il il secolo scorso apre anche una nuova fase che porta al centro dell’attenzione la nuova figura del regista teatrale, che supera in importanza autore e attore. Quali secondo la sua esperienza i confini tra questi due ruoli, attore e regista?
“Credo che dipenda da un certo tipo di scelte. Esistono attualmente lavori nei quali la figura del regista è praticamente assente, o integrata in quella dell’attore. In altri, il regista lavora in sostanza con marionette. Ad oggi si sono battuti terreni talmente diversi che ogni soluzione nell’organizzazione delle messe in scena è plausibile. Seguendo uno schema più o meno convenzionale, in cui le figure di attore e regista si bilanciano adeguatamente, credo sia un rapporto di continua osservazione e scambio reciproco”.
Nell’Italia del dopoguerra alcuni registi, come Luchino Visconti e Giorgio Strehler, rivoluzionarono la concezione fondata sulla centralità dell’interprete, realizzando spettacoli nei quali la regia si esprimeva al massimo livello: nasce il “regista–demiurgo”. A suo parere è ancora corretto parlare dunque di “regista demiurgo” nella drammaturgia contemporanea?
“Come detto nel punto precedente, di certo esiste. È corretto parlarne nella misura in cui si verifichi effettivamente nello svolgersi dei lavori sulla messa in scena”.
Passiamo all’impresa “epica” (è il caso di dirlo) di mettere in scena adesso, nel 2018, un testo complesso e particolarmente ostico come “Nella giungla delle città” di Bertolt Brecht. Quale la sua attualità oggi e soprattutto perché portare al pubblico contemporaneo un autore controverso, politicamente schierato e, ideologicamente anche, odiato/amato dal mondo del Teatro?
“È senz’altro difficile approcciarsi ad un autore così complesso, e credo che la smisurata passione per la sua opera sia l’ unico fondamentale motore. Non credo che un testo sia coinvolgente solo se reso attuale. Secondo me la pretesa di voler agganciare un lavoro ad un discorso morale, filosofico o attualizzante, a volte, è superflua. Penso che “La Giungla” possa essere semplicemente una storia inusuale e grottesca assolutamente divertente da seguire perché piena di continui ribaltamenti. Qualcuno potrebbe trovarci riferimenti a questioni razziali, di classe sociale e immigrazione, ma forse solo alla lontana. Brecht ha scritto un racconto colmo d’azione, e avverte: – Vi trovate a Chicago, ed assistete all’inspiegabile lotta di due uomini e alla rovina di una famiglia, che dalle savane è venuta nella giungla della metropoli. Non tormentatevi il cervello per scoprire i motivi di questa lotta, ma osservate le poste umane in gioco e concentrate la vostra attenzione sul finale –”.
Il Teatro di Brecht propose una riforma in senso “Epico” del teatro, fondata su una recitazione estraniata, in contrapposizione dunque all’immedesimazione psicologica decantata da alcuni suoi colleghi contemporanei. Secondo lei oggi ha ancora senso parlare di Metodi di Studio Teatrali e quale in tal senso il ruolo delle Scuole di Teatro per futuri attori?
“Il concetto di straniamento non risulta mai completamente chiarito. Vari registi lo interpretano a modo proprio. Quest’opera, ad ogni modo, non appartiene alle tipologie per le quali Brecht si rese celebre successivamente in tutto il mondo (drammi didattici, opere musicali), e che in qualche maniera obbligavano lo spettatore a giudicare l’attore a ‘straniarsi’ e il regista a lavorare tenendo conto di particolari stilemi. È un testo giovanile, diverso da molti altri, nel quale l’azione regna sovrana e la lotta è al centro della vicenda. Certamente sono presenti moltissimi dei temi su cui in futuro l’autore spesso porrà l’accento (l’egoismo, la diversità, la miseria umana, l’ostilità, lo scontro tra due mondi differenti). I personaggi di Brecht, comunque, tendono a non avere struttura psicologica ma sono quasi sempre parte di un’azione comune più ampia. Le scuole di teatro, indipendentemente da metodi e autori trattati, a mio avviso dovrebbero tenere lontani gli allievi dalle illusioni ed aiutarli a trovare la propria strada come artisti e persone”.
Nel lavoro con gli attori, anche lei applica un suo metodo di regista teatrale oppure di volta in volta, a seconda del cast, si adegua al “materiale vivente” che ha davanti?
“Come ogni teatrante che si cimenti nella regia cerco di seguire delle personali linee guida e, ovviamente, valorizzare il lavoro delle persone con cui collaboro al momento”.
Attore o Regista: se dovesse indiscutibilmente scegliere?
“Non scelgo!”
Lavinia Ala