Alessandro Longobardi:
“L’opera culturale è un prodotto immateriale”
Alessandro Longobardi, direttore di quattro prestigiosi teatri della capitale, tra i quali il Brancaccio e la Sala Umberto, è stato nostro ospite e ha fornito un quadro dettagliato del futuro del teatro una volta finita la pandemia.
Longobardi ribadisce come la realtà culturale italiana privata viva una condizione di precarietà costante e assoluta che i giorni di lockdown hanno peggiorato ancora di più, tanto che persino cospicue donazioni si ridurrebbero a un piccolo palliativo.
Una volta quantificate le ingenti perdite economiche derivate dalla crisi sanitaria, Longobardi analizza il rapporto cultura/istituzioni sottolineando come purtroppo il dialogo tra i due sia spesso sottovalutato proprio dalla prima che, per quanto possa sembrare il contrario, ha invece un significativo impatto sul contesto socioeconomico del nostro Paese.
Come altri esponenti del mondo del teatro, anche Alessandro Longobardi ipotizza un aiuto da parte della TV, esponendo delle idee senza dubbio interessanti e probabilmente anche funzionali: sembra probabile che questa possa essere davvero un’importante soluzione per la ripresa e una sua messa in opera potrebbe contribuire al sentimento di ottimismo che in questi giorni sta accomunando chiunque ami il teatro.
Alessandro Longobardi, tutti i teatri d’Italia sono ormai ufficialmente chiusi da più di due mesi. Quanto tempo ancora sarà possibile resistere a una condizione così dura e preoccupante?
“Le quarantene non dovrebbero superare il loro limite, ma qui siamo oltre l’immaginabile. Il distanziamento sociale e il lockdown avevano una logica: dare al servizio sanitario italiano il tempo di organizzarsi per gestire e contenere l’emergenza. Ma qui rischiamo il ‘knockdown’. I dati statistici, con eccezione della Lombardia, rivelano un netto miglioramento. Sarà terminato il ciclo del virus? Quanto meno la carica letale sarà ridotta con la bella stagione? È il Ministero della salute che risponde a queste domande. Certamente, se guardiamo i nostri vicini, come la città di Lugano, la realtà è diversa. I bar sono pieni, la gente gira tranquilla. Che pensare? Attendiamo per riaprire i teatri una certezza giuridica che recepisca indicazioni dalla scienza. C’è comunque sempre una mediazione politica in questo passaggio”.
Quanto ottimismo serve per sperare che investitori privati salvino i teatri non beneficiari del FUS?
“Bisogna essere realisti, con i piedi per terra. In Italia potrebbe accadere solo in alcune aree del nord dove esiste un’economia molto solida. Nel centro sud è improbabile. Di fatto i privati possono intervenire solo se la normativa consentisse un beneficio fiscale vero. In generale il terzo settore, nei paesi più illuminati, vive di donazioni grazie alla normativa fiscale. Da noi c’è il cosiddetto Art Bonus ma non porta risultati utili al teatro”.
Lei dirige quattro fra i teatri più prestigiosi di Roma: è possibile fare una quantificazione del danno economico accumulato finora?
“Si, è semplice. Basta sommare i costi vivi della gestione e quelli della produzione. Il deficit, in breve, ammonta a circa 2,5 milioni di euro. Soprattutto i capitali investiti nelle produzioni non potranno essere recuperati con lo stop forzato delle tournée e quindi del cash flow vitale per questo genere di imprese. L’opera culturale è, in termini economici, un prodotto immateriale che non si può mettere in magazzino e rivendere quando possibile. È come il latte fresco, non lo mantieni oltre un certo tempo. Per le imprese culturali private, non tutelate in modo efficace dal Fondo unico dello Spettacolo, non basta mettere in sicurezza il personale con gli ammortizzatori sociali, peraltro con una decurtazione del 20% dello stipendio, nel breve periodo. Serve ben altro. Le imprese devono ricevere una copertura del deficit accumulato da forzata chiusura, avere un accesso al credito bancario facilitato e garantito al 100% dallo Stato, ottenere il ‘Tax credit’ per attrarre capitali privati e produrre con rischi più contenuti. Poi il pubblico ha bisogno di sicurezza e la domanda andrebbe sostenuta consentendo la deduzione fiscale del costo del biglietto come per le medicine. Il teatro cura l’animo della gente. Ci vorrà tempo per ripristinare la tranquillità”.
Per quale motivo – secondo lei – fino ad ora lo spettacolo non è mai stato oggetto di programmi legislativi che potessero intervenire in circostanze come questa?
“I primi responsabili sono i teatranti. Incapaci di raccontare e tutelare il loro ruolo e quindi il loro lavoro. Manca una rappresentanza unita e ampia che agisca facendo politica. Recentemente le imprese culturali private, che hanno anche l’onere di gestire una sala teatrale, si stanno unendo in un coordinamento del teatro privato italiano. Piccoli passi di aggregazione. Questo mondo non è proprio compreso da coloro che possono legiferare. Succede, pertanto, che solo una parte del teatro, quella pubblica – essendo tale – ha una sua organizzazione che trova sostegno effettivo. Le imprese culturali private e i piccoli, piccolissimi, protagonisti del cluster culturale navigano a vista, spesso con il cappello in mano per elemosinare qui e là, ove possibile, piccoli sostegni. Non c’è una consapevolezza nel sistema che permetta di riconoscere l’impatto socioeconomico sul Paese, dando dignità a questo settore. Si ascoltano spesso affermazioni impressionanti, così lontane dal significato del ruolo della cultura, che evidenziano come sia stata debole la scuola italiana nel trasmettere il valore del teatro. La cosa incredibile è che l’Italia è cultura. È un riferimento per tutto il mondo fuorché per gli italiani. Forse ci siamo seduti sopra e guardando in avanti non lo percepiamo”.
Cosa ci si deve aspettare per la stagione 2020/2021?
“Sarà una stagione che cercherà di proteggere tutti gli spettacoli annullati nel trimestre marzo – maggio e in funzione della data di ripartenza sapremo se potrà esserci spazio per nuove produzioni, ma la vedo difficile sia per l’incertezza (servono mesi per programmare nuovi progetti) sia per il pubblico che avrà meno risorse economiche e potrebbe essere timoroso nel ritornare in sala”.
Lei ha ipotizzato un aiuto da parte della RAI per sostenere o addirittura salvare la situazione: pensa che il solo intervento della televisione di stato possa essere sufficiente?
“Sì. Chiariamo bene il concetto. Gli artisti, i tecnici e gli artigiani che compongono l’humus fecondo del tessuto culturale produttivo non possono stare fermi. Il tema va oltre il problema economico. È una questione di esistenza. La psicologia gioca un ruolo fondamentale. Il corpo è uno strumento di questo lavoro e deve essere operativo, altrimenti s’incrina la sua ragione di esistere. Se fermiamo la produzione in attesa di tempi migliori desertifichiamo il settore. Dunque, in assenza del mercato dal vivo, dobbiamo creare un mercato parallelo e sinergico al primo. I due mondi non collidono. Pertanto la proposta di avviare una library del teatro in video ha un gran senso. I teatri vengono utilizzati come teatri di posa, le imprese di produzione allestiscono spettacoli come se dovessero andare al debutto che peraltro si realizza; durante le prove avvengono le riprese e, a chiusura, dopo il debutto con pubblico contingentato, inizia la post–produzione. Si crea, così, anche una sinergia con il mondo dell’audio–video. Quindi tutti avrebbero 6/8 settimane di lavoro. Tutto questo necessita di un mercato che ora non c’è. Il committente potrebbe essere la RAI Teatro. Il modello di riferimento è RAI Cinema che ha dato e dà un grande supporto al settore. Di pari passo, per attirare altri capitali, va inserito il ‘Tax credit per il Teatro’. Nel decreto Rilancio si presenta la piattaforma digitale chiamata Teatro Flix che potrà contribuire ad alimentare questo nuovo mercato. I vantaggi per il teatro dal vivo sono oggettivi: maggiore continuità nel lavoro che notoriamente ha un andamento stagionale; creazione di un nuovo pubblico (ricordiamo solo Govi e Eduardo De Filippo, conosciuti dai più attraverso la TV); attrazione di risorse per stabilizzare i lavoratori dello spettacolo; trasmissione della memoria dei capolavori del teatro, della danza, della musica; integrazione nei programmi scolastici con un ritorno sulla formazione incredibile”.
Se lei fosse un comune spettatore, a settembre rientrerebbe in platea senza nessun timore?
“Io mi documento approfondendo molto. Capisco che gestire le masse richieda prudenza, ma il buon senso non deve mancare. Quindi, nel rispetto delle indicazioni del CTS tornerei molto volentieri a godermi uno spettacolo”.
Quali misure stanno prendendo all’estero in merito alle sorti del teatro?
“Nei paesi ove lo spettacolo dal vivo è una vera risorsa condivisa come quelli anglofoni e del nord Europa, in particolare Germania e Olanda, si mormora una riapertura a metà settembre e i biglietti si possono già prenotare. Ovviamente anche loro sono in attesa di indicazioni di un via libera definitivo dai loro governi. Questo virus alla fine darà maggior consapevolezza del valore dello stare insieme con diligenza”.
Gabriele Amoroso
Foto Massimiliano Fusco