Non solo la capitale, ma anche Milano quest’estate ha pullulato di iniziative teatrali. Il 27 agosto, infatti, per il “Festival delle connessioni umane 2.0” organizzato dal teatro Carcano, Lella Costa è andata in scena con il monologo ‘La Fata’. Uno spettacolo che mette al centro il femminile secondo una visione …
Chi è davvero la fata turchina?
“Farà per te qualunque cosa
e tu sorella madre e sposa
e tu regina o fata tu
non puoi pretendere di più.
E forse è per vendetta
e forse è per paura
o solo per pazzia
ma da sempre
tu sei quella che paga di più
se vuoi volare ti tirano giù
e se comincia la caccia alle streghe
la strega sei tu”.
Mancava solo la voce di Edoardo Bennato, che pure nella sua riscrittura del 1977 di Pinocchio, il concept album “Burattino senza fili”, rovescia – o forse piuttosto illumina – la figura che a tutti si affaccia alla mente se pensiamo alle Fate: la “bimba dai capelli turchini” (così è raccontata la prima volta che appare sulle pagine del secondo libro più venduto di sempre).
Da lei, inevitabilmente, Lella Costa, che del caposaldo della nostra letteratura ha registrato un godibilissimo audiolibro a fine 2023, parte per aprire il Festival che, per il secondo anno, il teatro Carcano porta nelle periferie milanesi.
Quest’anno, la cornice è il cortile di villa Scheibler, che accoglie in un entusiasta più che tutto esaurito l’inizio della rassegna Imagine, che alla sua seconda edizione aggiunge un evocativo “Festival delle connessioni umane 2.0”.
Connessioni umane che la codirettrice artistica del teatro di Corso di Porta Romana sa instaurare come nessun altro sa – ad ennesima dimostrazione di un dato più che noto – e che neanche lo scroscio di pioggia di fine agosto induce nessuno a lasciare il suo posto, tutt’al più riparandosi sotto un ombrello più o meno di fortuna o sotto un porticato.
La Fata: immaginari sovrapposti
Ma non a distrarsi dal palcoscenico dove Lella Costa – a sua volta non senza un certo sprezzo del pericolo per le conseguenze della pioggia sui circuiti del microfono – chiarisce subito di chi stiamo parlando se pensiamo, davvero, alla fata turchina.
Che ha subito, come le donne hanno sempre visto avvenire nei secoli, una conversione in senso oblativo, devoto, “colei che tutto perdona, tutto giustifica, tutto assolve e tutto motiva” chiosa Costa “al punto di non meritarsi nemmeno un’uscita di scena in presenza” che oggi il femminismo chiamerebbe e chiama narrazione patriarcale.
Della fata turchina Costa prende a prestito le fattezze, presentandosi in scena con divertenti ciocche azzurro acceso, omaggio forse più alla libera e sfrontata bellezza di Lucia Bosè e Loredana Bertè che alla fata medesima; e del resto del turchino, si sa, esistono decine di letture e interpretazioni, dal viola di Comencini al biondo di Disney.
Una confusione di immaginari a ulteriore dimostrazione del fatto che, di chi sia la fata turchina, non abbiamo davvero idea. Abbiamo imbevuto la nostra coscienza di bambini, negli ultimi 140 anni, di una varietà di immaginari sovrapposti, accomodanti, che hanno in realtà finito con il coprire quella originale.
Le nostre certezze sul femminile curativo e paziente
Come – rileggendo da par suo il testo – Lella Costa dimostra, la fata turchina collodiana è, semmai, una figura estremamente più cupa e decisa insieme, che fa della favola per bambini un romanzo quasi gotico, e del suo autore più un antenato di Stephen King che dei colori accesi di Hollywood.
Dunque, come la prenderebbero le nostre certezze sul femminile curativo e paziente, educato e accomodante, se ricordassimo che la scena della comparsa della fata è una scena di morte, d’assassinio, in cui una bambina morta si affaccia da una abitazione che pare più la casa delle finestre che ridono che la cornice di una fiaba?
Eppure questa è la fata, nella storia, (dopo spesso accuratamente espunta) che chiude la porta al monello in fuga e seppur con gentilezza, davanti alla medicina amara non teme di evocare i conigli neri della morte finché il burattino capriccioso non si decide a berla.
Si intende, infatti, delle sue molteplici morti lungo la vicenda, di cui è senz’altro più interessante immaginare un’intenzione orrorifica al posto di quella reale dell’esigenza di continui colpi di scena connaturata alla nascita del libro come romanzo a puntate uscito sul giornale, forzato quindi a spingere all’acquisto del numero successivo.
Niente di diverso, del resto, dal funzionamento delle soap opera moderne, per le cui protagoniste (non soltanto di genere femminile, in questo caso) la prima morte non è quasi mai quella definitiva. Allora, di quale fata e quali fate abbiamo nutrito le ragazze che siamo state e che saranno?
La Fata: il confine del presente
Lella Costa esercita con maestria l’arte sottile della divagazione per passarle in rassegna se non tutte, molte, dalla fatina dei denti alla fata Smemorina di Cenerentola con il suo possibile principio di demenza.
Gioca e diverte, danzando e citandosi (molto stimolante, per gli appassionati, la sfida di identificare parentele e rimandi ai suoi lavori precedenti) tra le parole per dire il femminile e gli esiti di chi ci ha provato, talvolta imbarazzanti (come certa musica pop, datata e degli ultimi mesi nella stessa misura) talaltra felicissimi, come la “Cocotte” di Guido Gozzano – “Fate saranno, chi sa quali fate, /e in chi sa quali tenebrosi offici!”. In ogni caso sempre eloquenti dell’immaginario attraverso cui il femminile ha preso forma.
Costa, esilarante e commuovente nella stessa misura, del cui equilibrio è maestra come poche altre, si prende il lusso di sorridere senza abdicare mai all’esigenza di mettere i puntini sulle “i” del presente, anche ribadendo – perché serve ancora – il confine tra un complimento e una molestia.
Chi desideravamo essere?
Perché, di fronte ad un’aggressione, per quanto piccola come una parola breve quanto fata, alle donne il compito di raccontare anche da un palco le magie egli incanti attraverso cui le fate di ogni tempo, dalla Titania di Shakespeare al tempo dei social, vogliono raccontare se stesse.
E fa niente se la fata turchina non è più la mamma sempre zuccherina che (molti/e? tutti/e?) gli uomini sono stati educati a sognare, e somiglia invece più alla Nicole Kidman dell’horror “The Others”.
Ma allora, si leverebbe qualche voce, si vuol forse dire che Collodi abbia affidato al solo personaggio femminile del suo romanzo un significato negativo? O, peggio ancora, trasformare l’autore fiorentino nell’alfiere della sensibilità contemporanea? No.
Vale però la pena ripensare alle fate che le bambine del secolo breve hanno immaginato di essere, e leggere in loro anche la reazione a quel maschile che, mascherandolo di devozione, con l’egoismo infantile di Pinocchio piange l’assenza della fata soltanto per se stesso, per il pranzo e la giacchetta che nessuno più gli farà – “si dice amore, però no, chiamarlo amore, non si può”, chioserebbe Bennato.
Morgana e Murgia: il femminile e i nuovi semi
Il femminile della fata, delle fate, è piuttosto quello di Morgana, che scompagina i giochi. Di tutte le Morgane “un po’ fate e molto streghe”, come si potrebbe recitare a memoria citando chi, in questa forma, negli anni, ha reso giustizia a tutte coloro che “vogliono piacersi, non compiacervi”.
L’applauso a scena aperta e il filo di commozione che unisce una platea – composta da donne, ma non solo -, quando si nomina Michela Murgia non basta a rendere, ancora adesso, la misura dell’eredità sempre più evidente. E se si parla di fate, la conclusione, commossa, dell’amica Lella Costa, è inevitabile pensare a lei, così libera, che si può forse contraddire ma mai ignorare, che ha lasciato nuove parole, nuove letture.
Nuovi semi. Come fanno le artiste, spesso sorprese a fine pagina (o a bordo palco) dalle confessioni di quanto le loro parole abbiano agito sulla vita di chi le ha ascoltate. Dando loro forma, cambiandone le rotte. Come fanno le fate, quelle reali.
Che si possono salutare con un pubblico tutto in piedi, come succede quando si spengono le luci su questo spettacolo, manifesto apertamente femminista senza mai perdere la leggerezza predicata da Calvino. Di queste fate vere, si diceva, si potrà dire tutto. Ma non che il mondo, senza di loro, non sarebbe stato, almeno un po’, diverso.
Chiara Palumbo
Villa Scheibler – Milano
Festival delle connessioni umane 2.0
27 agosto
La Fata
Digressioni ironiche e argute sulla figura più misteriosa e mutevole
de Le avventure di Pinocchio
di e con Lella Costa
produzione Teatro Carcano