Vincitore del Premio per la Miglior regia al Festival di Cannes nel 1995, ‘L’odio’ mette in luce la vita nelle periferie parigine, prendendo spunto da un fatto realmente accaduto: l’uccisione di un ragazzo da parte della polizia. Attraverso l’uso dialettale, inoltre, il regista Kassovitz determina i caratteri dei giovani personaggi, fornendo loro quel quid di bullismo che li caratterizza. Un film che esce fuori dai canoni cinematografici attuali, ma tuttora considerato un capolavoro e qualitativamente valido
“Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: “Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”
Esistono film capaci di superare ogni muro temporale che sono destinati a restare in eterno nell’immaginario collettivo. Inoltre sono in grado di racchiudere con delle immagini, dei suoni e delle situazioni il loro significato più recondito. ‘L’odio’, uscito in Francia nel 1995, è diretto dall’allora poco più che ventenne Mathieu Kassovitz: il suo esordio avvenne solo due anni prima con “Metisse” che però cadde ben presto nell’oblio.
Dunque, perché questo lungometraggio è così speciale da essere considerato un cult senza tempo? ‘L’odio’ racconta quello che, ormai ventisette anni or sono, è ancora di strettissima attualità, non solo nella banlieue parigina, dove il girato affonda le sue radici, ma in tutte le periferie del mondo.
Quando mi accostai per la prima volta a questo film avevo quattordici anni. L’opera era inserita all’interno di una retrospettiva cinematografica organizzata in un pidocchietto autogestito del quartiere Tufello della capitale, e già dalle prime immagini mi sentivo calato nella narrazione. Per me fu uno shock e sicuramente un passo importante verso la mia passione per il cinema.
‘L’odio’ si può di certo considerare un calssico del cinema sia per la pellicola in bianco e nero sia per la ricercatissima colonna sonora che viaggia tra hip hop e reggae, i pezzi musicali in voga in quel periodo, in particolare in Francia.
Le vicende di Vinz (interpretato da un giovanissimo Vincent Cassel), Hubert (Hubert Koundè) e Said (Said Taghmaoui) si svolgono nel piazzale antistante le case popolari che fanno da crocevia del loro quotidiano, dove si vive di espedienti e la microcriminalità la fa da padrona.
Vinz è un ragazzo ebreo poco osservante, a cui piace molto fare il duro e imitare i cattivi dei film, spesso in modo molto goffo, e ha molte stranezze. Hubert, invece, è un boxeur di origine africana molto promettente, ma il suo sogno agonistico va in pezzi quando la sua palestra viene incendiata. Said, infine, è un ragazzo di origine magrebina il quale ha una sola grande passione: non fare nulla, e lo sa fare molto bene. Quest’ultimo ha un fratello poliziotto, che spesso si adopera per non far finire nei guai Said stesso e i suoi amici.
I tre passano le loro giornate essenzialmente bighellonando, ma non sono così sbandati e svogliati come si possa pensare. Ciascuno di loro sogna una svolta per una vita migliore, specialmente Hubert e Said, anche se uscire da quelle sabbie mobili non è semplice. I tre sognano i lussi e la bella vita della città parigina, che per loro è pura utopia.
La regia segue un ritmo fluido, non eccessivamente frenetico. Il regista segue uno stile documentaristico in cui è abile a non far distinguere il vero dal falso. Stile, questo, che influenza la recitazione dell’intero cast, che risulta narurale, reale. Nell’insieme si innesta uno studio fotografico a cura di Pierre Aim nitido e studiato nei minimi dettagli.
Sulla criminalità di strada sono state realizzate tantissime serie TV e film, alcuni bellissimi, altri davvero scadenti soprattutto provenienti dal mondo di Hollywood. Al contrario, in Europa i film che trattano questa tematica sono molto pochi: potrei citare “Trainspotting“ (1996) oppure “Pusher“ (1996).
Tuttavia, a rendere unico ‘L’odio’ è la realtà della periferia parigina che non è poi così differente da quella in cui sono cresciuto. Di Vinz, infatti, ne ho incontrati tanti per strada, come ho vissuto con assoluta normalità il multiculturalismo sin dall’infanzia, prima che questo divenisse argomento caldo dell’opinione pubblica.
La forza del girato è raccontare un mondo che pare universale – basta inserire nella trama una periferia –, che rimanda quella sensazione quasi ineluttabile della marginalità e dell’abbandono sociale e culturale. Inoltre posso considerare che, ancora dopo tanti anni, quelle stesse strade seguitano a essere polveriere pronte a esplodere.
Di fatto poco e niente è cambiato da allora, anche se si tratta di finzione.
Vi consiglio caldamente la visione di quelo lavoro. Sono certo che, sia che esso vi piaccia oppure no, non vi lascerà indifferenti.
C’è un prima e un dopo: aver visto ‘L’odio’ è un’esperienza che non si dimentica.
Andrea Di Sciullo
La Haine – L’odio
Regia, Soggetto e Sceneggiatura Mathieu Kassovitz
con
Vincent Cassel Vinz
Hubert Koundé Hubert
Saïd Taghmaoui Saïd
Marc Duret Agente Notre-Dame
Karim Belkhadra Samir
Abdel Ahmed Ghili Abdel
Édouard Montoute Upim
François Levantal Asterix
Solo Dicko Santo
Mathieu Kassovitz naziskin
Benoît Magimel Benoit
Vincent Lindon l’ubriaco
Karin Viard ragazza alla galleria d’arte
Fotografia Pierre Aim
Montaggio Mathieu Kassovitz e Scott Stevenson
Musica Vincent Tulli
Genere Drammatico, noir
Produttore Christophe Rossignon