In chiusura della rassegna estiva organizzata dal teatro Carcano di Milano, il “Festival delle connessioni umane 2.0”, il 1° settembre è andato in scena ‘Olivetti – Il sogno possibile’. Laura Curino e Lucilla Giagnoni così rendono omaggio all’industriale personaggio esemplare e illustre, anticipatore dei tempi
Si possono usare, nella stessa frase e nella stessa mente, parole come capitale e rivoluzione? Possono stare insieme etica ed economia? Può un imprenditore avere come primo obiettivo quello di costruire, prima del proprio profitto, un sistema sostenibile per il lavoratore?
Al lettore – e alle contingenze dei tempi – non solo la risposta ma anche la liceità stessa della domanda. Di certo, Adriano Olivetti ci ha provato. O così lo raccontano Lucilla Giagnoni e Laura Curino in ‘Olivetti – Il sogno possibile‘, primo tributo scenico pagato a una storia che, oggi, è molto nota e si moltiplica quotidianamente in libri, approfondimenti, persino fiction televisive.
Si partiva, però, da questo spettacolo che torna in scena, a due decenni dalle ultime repliche, al “Festival delle connessioni umane 2.0” che il teatro Carcano porta, per la sua chiusura, in uno spazio che è già un racconto e, in certo modo, anche questo racconto: la casa di comunità di Villapizzone, periferia industriale (quella già narrata da Testori, nato a una manciata di chilometri da qui) che ha voluto diventare spazio sociale, accogliere vite per molti versi di margine in una atmosfera quasi familiare.
Come familiare è il punto di osservazione da cui viene rimandato Olivetti, che da una fabbrica di condensatori ha creato l’impero delle macchine da scrivere che si sarebbe spinto fino ai computer, prima di tutti gli altri, se in un giorno di neve il cuore non lo avesse tradito su un treno diretto in Svizzera.
Olivetti: il nastro della sua esistenza
Lo sguardo da cui riavvolgere, a ritroso, il nastro della sua esistenza, è quello affettuoso degli occhi della piccola Lalla, la figlia di pochi anni. Ha la postura esilarante – le due artiste ne rendono con grande freschezza e ironia l’immagine – con cui si guarda agli inventori un po’ sopra le righe, spesso poco affidabili e forse un po’ geniali come suo padre, Camillo, vecchio socialista che aveva trasformato in fabbrica un luogo nato come laboratorio scientifico.
E ha, soprattutto, il calore della provincia, dove l’industria è una sorta di epitome stessa degli stabilimenti. È così nell’Ivrea degli Olivetti, non senza ambiguità, come spesso avviene quando lavoro e legami personali si mescolano, quando, (piaccia o meno anche a chi lo vive) è inevitabile il dislivello di potere di disponibilità economica, tra un imprenditore colto e benestante, e dipendenti di provenienza più popolare.
Uno stato di cose di cui lo stesso Adriano sente, se non il peso, la responsabilità fin da ragazzo, quando si trova a misurare quanto le sue mani siano molto meno pronte alle asprezze dell’azienda e del quotidiano di quelle dell’amico Milu, figlio di un dipendente di fiducia di suo padre, che dell’Olivetti più anziano porta, per gratitudine, il nome.
Intelligenza e intuito
Capirà più avanti che occorrono intelligenza e intuito per “portare in salvo” – questo è l’obiettivo che si dà – il sapere antico di quelle mani, di una terra e di un tempo in cui si riparano camere d’aria con le formule magiche; perché solo da quelle si può trarre le nuove idee per immaginare il futuro.
Sulle quali, tuttavia, bisogna saper scommettere. Ed è a questo, soprattutto, che vuol rendere merito agli Olivetti lo spettacolo, nonostante la costrizione della forma del reading, obbligata dal riadattamento per una voce in meno rispetto all’originale, ritmato come una jam session jazz perfettamente in tono con quegli anni e che viene dall’America a cui, dopo aver dovuto chiedere aiuto, a Olivetti figlio è mancato il tempo di riconquistare.
‘Olivetti – Il sogno possibile’. L’eloquente sottotitolo, colma dunque la penuria, nella narrativa italiana, di narrazioni di epica del lavoro che il cinema soprattutto ha importato da altre latitudini.
Note intime di un lessico familiare
E tuttavia lo fa con un’atmosfera che non potrebbe essere più italiana di così, con gli odori e i panorami della provincia. Lo fa, poi, senza eccessi d’enfasi ed eroismo, senza espungere i conflitti che hanno portato, anche, all’estromissione dall’azienda dello stesso Adriano, ma restituendone le note intime di un lessico familiare che incrocia la storia d’Italia.
E l’evocazione è tutt’altro che casuale, perché il giovane Olivetti – futuro marito della sorella di una ragazza che, all’epoca, si chiamava solamente Levi – fa capolino nelle pagine del capolavoro di Natalia Ginzburg nel pastrano scuro con cui accompagnerà oltre confine Filippo Turati, ricercato dai fascisti.
Non è una storia d’eroismo, quella degli Olivetti, ma forse di quasi altrettanto rara disponibilità di dare a chi ha le mani per nuove idee il tempo per svilupparle, sia partendo per un viaggio di là dell’oceano o affidando a un operaio in odore di licenziamento l’ascolto per maturare il guizzo che cambierà la fabbrica. E di prendersi cura, di quelle mani, gettando le basi di quella imprenditoria sociale che oggi sembra un’invenzione della Silicon Valley.
Vengono invece dalla città del carnevale delle arance l’intuizione di benefit come l’asilo per i dipendenti, di fabbriche piene di sole (firmate, l’uno e l’altra, da architetti in ascesa vertiginosa come Figini e Pollini) e di un’attenzione sia per la formazione sia per il tempo libero dei dipendenti, in un tempo in cui si trattava davvero di colmare un vuoto di welfare, non di escamotage per dilatare all’inverosimile il tempo di lavoro.
Una storia famigliare che prende vita con luminosa vitalità e limpida chiarezza, che mettono ‘Olivetti’ indiscutibilmente tra gli esiti più felici di quel teatro di narrazione che tutto il teatro italiano deve a teatro Settimo, di cui Curino e Giagnoni si sono formate e sono state anima.
Perché anche l’economia può diventare grande teatro, a patto che, come il sapore del dialetto, arricchisca una accuratissima costruzione, dove la regola è tuttavia una sola ma inderogabile: “devono capire tutti”.
Chiara Palumbo
Villa Scheibler – Milano
Festival delle connessioni umane 2.0
1 settembre
Adriano Olivetti – Il sogno possibile
con Laura Curino e Lucilla Giagnoni
di Laura Curino e Gabriele Vacis
Regia Gabriele Vacis
Scenofonia – luci Roberto Tarasco
Collaborazione all’allestimento Lucio Diana
Assistente alla regia Bruno Macaro
Assistente alla drammaturgia Michela Marelli
Produzione Associazione culturale Muse
Lo spettacolo è stato realizzato in collaborazione con Città di Ivrea, Provincia di Torino, Regione Piemonte